giovedì 20 settembre 2012

LA VIA DEI BORGHI: Sommario


La Sicilia, Lettore, vanta diversi primati tra le regioni italiane. E’ quella che presenta la superficie maggiore, possiede la rete stradale di maggior estensione,  ed è la regione nella quale il latifondo è stato, da sempre, maggiormente rappresentato. La forma verbale utilizzata, “vantare”, è solo un modo di esprimersi; in realtà, non vi sarebbe nessun vanto nelle condizioni summenzionate. Esse però hanno una conseguenza notevole: è possibile scorrazzare in lungo ed in largo per tutta l’isola, traendone un’impressione di vastità che eccede la reale condizione geografica



Si può viaggiare per centinaia di chilometri, al suo interno, senza mai vedere il mare e, ancora oggi, in alcune località, senza incontrare anima viva


 ciò, beninteso, se si è disposti a rischiare l’incolumità del proprio mezzo. Allo sviluppo in lunghezza della rete stradale infatti non corrisponde un pari livello di civiltà, cosicchè lo stato del manto stradale è paragonabile a quello che si può trovare nelle regioni più retrograde del Medio Oriente. E quando simili spostamenti avvengono provenendo dalle città costiere, risulta marcato il contrasto tra l’alta densità abitativa di esse con l’insopportabile traffico cittadino, e la pace che regna in certi luoghi dell’interno




Nonostante lo stato di manutenzione delle sue strade non differisca da quello descritto per l’interno (a volte è anche peggiore), infatti, Palermo risulta essere la città più caotica del globo in termini di traffico automobilistico. L’assoluta inadeguatezza degli assi viari, la totale assenza di parcheggi, l’inesistenza di qualunque cosa assomigli lontanamente ad un servizio di trasporto pubblico, ed una gestione della circolazione stradale basata su criteri che oscillano tra comicità demenziale e surrealismo rappresentano infatti la scusa perfetta per gli automobilisti palermitani per sfoggiare tutta la maleducazione di cui sono in possesso, che appare infinita




Nello stesso modo forniscono, al politico di turno, l’opportunità di lucrare, da un lato riempiendo le casse comunali con i proventi di tanto penalizzanti quanto inutili sanzioni amministrative, per poi svuotarle dall’altro  con la realizzazione di opere  altrettanto inutili e penalizzanti per gli spostamenti di chi lavora dimostrando più completo dispregio per tali esigenze, verosimilmente derivante dal disconoscere totalmente il significato pratico del verbo “lavorare”. Il “sistema Tram”, il cui unico effetto è finora stato quello di ridurre ad un budello le uniche strade cittadine che ancora presentavano dimensioni se non adeguate al traffico, almeno accettabili, può essere considerato un esempio paradigmatico di quanto esposto




A tali condizioni da girone infernale fa da contraltare il senso di isolamento  che suscitano gli spostamenti in certe contrade



qui l’espressione “senso di isolamento” non vuole avere alcuna connotazione negativa, riferendosi anzi alle poche possibilità che la Sicilia offre per sottrarsi momentaneamente ad una qualità di vita quotidiana indegna di un paese occidentale, così infima da travalicare i limiti della civiltà




Durante tali peregrinazioni, non solo la presenza umana si fa poco frequente, ma anche i segni di essa si diradano; vi sono diverse zone nelle quali le uniche costruzioni visibili sono piccole abitazioni rurali, o ciò che rimane di esse, che sorgono isolate sulle pendici di colline o sulla sommità di alture



Più raramente, accade di scorgere agglomerati di edifici tra i quali, a volte, è riconoscibile il campanile di una chiesa



essi rappresentano il nodo di intersezione, il punto in cui avviene la sintesi tra le condizioni sopra menzionate, quella geografica, quella infrastrutturale e quella sociale.

Tali agglomerati di edifici, proprio a causa della posizione appaiono almeno suggestivi, quando non addirittura metafisici. Essi incuriosiscono e sollecitano la fantasia, e non solo la mia, a giudicare da quante persone mi abbiano chiesto informazioni, o abbiano semplicemente asserito di averli notati. Sono borghi rurali, che in Sicilia costituiscono il luogo virtuale nel quale le tre condizioni citate sopra, vastità, strade e latifondismo, si incontrano.

Alcune persone non sono, per carattere, in grado di esimersi dal cercare le risposte alle domande che inevitabilmente fanno seguito alla curiosità, ed io sono tra questi. Troverai qui una breve descrizioni di quale impulso interiore mi abbia spinto ad intraprendere questo viaggio. Ciò che non mi aspettavo era la sua evoluzione; la breve escursione presso alcuni tra i borghi dell’isola è divenuta un viaggio nel tempo e nello spazio, che mi ha catapultato nella Sicilia medioevale, costringendomi poi a risalire velocemente il corso degli eventi fino al ventesimo secolo. E durante il viaggio nel tempo ho avuto modo di rendermi conto del come e del perché la Sicilia sia divenuta ciò che è. Ho avuto modo di constatare come certi legami tra situazioni, certi nessi di causa ed effetto siano molto più stretti di quanto non appaia ad un’analisi più superficiale. Ritornato nel ventunesimo secolo mi sono reso conto (non senza un certo sgomento) delle dimensioni che aveva assunto il frutto delle mie esplorazioni, e della conseguente necessità di una sintesi; questo post intende appunto rappresentare una tale sintesi, sotto forma di sommario, con collegamenti che puntino ai vari, singoli, argomenti, o che vi punteranno quando verranno scritti.

La necessità di una tale sintesi si è comunque manifestata gradatamente, crescendo in maniera proporzionale alla mole dei dati raccolta. Molto prima che si materializzasse in questo post, essa aveva già assunto le forme di una classificazione. Non avendo personalmente né la veste, né le cognizioni per classificare ciò che vedevo, non ho potuto che riprendere i criteri di chi mi ha preceduto. La mia classificazione, che trovi qui, deve necessariamente riprendere in qualche modo i criteri adottati da coloro che hanno comunque costituito un riferimento durante lo svolgimento del mio impegno.

La classificazione segue, anche se non strettamente, un criterio temporale per catalogare i siti visitati. Uno degli aspetti importanti dell’adozione di tale criterio risiede nella possibilità dell’eliminazione di un errore di fondo presente nella memoria collettiva, che attribuirebbe al regime fascista la fondazione di centri che in realtà è avvenuta in tutt’altro periodo. Il fenomeno è così eclatante che ho voluto identificarlo usando il termine di “Errore”, con la “E” maiuscola. Dietro l’Errore vi è fondamentalmente il dato di fatto che il regime fascista fu la prima forma di governo ad esprimere una reale attenzione verso la classe contadina, ed a concretizzare tale attenzione con un piano di riforma. Pertanto, per i contadini siciliani, l’identificazione tra opere di riforma agraria e Mussolini è divenuta totale; troverai sempre qui una breve disamina delle cause che potrebbero aver generato l’Errore.

Una descrizione di ciò che ho veduto in questi anni non poteva prescindere da una seppur breve menzione di ciò che era accaduto precedentemente al Ventesimo secolo; ma soprattutto, non poteva prescindere da una breve descrizione dei rapporti tra latifondo e mafia rurale. Ho riassunto qui origini ed evoluzione di tali rapporti senza alcuna pretesa di correttezza o di completezza; l'argomento viene comunque ripreso più volte nel corso della descrizione delle singole fasi.

Ho infatti ritenuto che la classificazione da adottare dovesse operare una suddivisione in fasi; l'Ente per la Colonizzazione del Latifondo Siciliano, formalmente nato nel 1940, rappresenta il fulcro di essa.

 
Le fasi anteriori al ventesimo secolo

Durante la prima fase  furono creati borghi come città di fondazione, che poi evolsero in vere e proprie cittadine; gran parte dei paesi dell'interno della Sicilia ha avuto origine in tal modo




I borghi rurali fondati allora non conservano però nella stragrande maggioranza dei casi, le caratteristiche originarie




Queste sono in qualche modo riconoscibili negli impianti dei centri storici, che costituiscono il nucleo originale attorno al quale si é sviluppato il resto dell'abitato



La seconda fase, con la quale si giunge a ridosso del ventesimo secolo, ha visto nascere spontaneamente altri borghi, di solito nelle adiacenze di bagli e masserie, anche se questa non è una regola assoluta
Numerosi sono i borghi nati spontaneamente durante tale fase. Alcuni sono stati raggiunti dall’espansione di centri maggiori ed inglobati in questi ultimi; pochi sono stati abbandonati, vivendo l’ultima parte della loro esistenza come “paesini fantasma”



Ma la maggior parte sono ancora abitati, anche se da pochissime persone, e ben riconoscibili nell’impianto; qui puoi trovare una breve descrizione delle prime due fasi.


La terza fase

La maggior parte dei borghi visibili ed immediatamente riconoscibili come tali é stata costruita nella prima metà del ventesimo secolo. Il regime fascista ha giocato un ruolo centrale nella loro realizzazione, ruolo che é culminato nella nascita dell'ECLS.

Il fascismo ha sempre mostrato particolare attenzione verso l’agricoltura. Forse, come espresso qui, non direttamente verso i contadini; ma sicuramente verso il mondo rurale globalmente considerato.

Diverse cause avrebbero motivato una tale attenzione.

La prima, forse la principale, di esse sarebbe stata comune al mondo intero. La cosiddetta  “globalizzazione” era lontana, nel tempo, quasi un secolo, e tutte le nazioni del mondo vedevano ancora nell’agricoltura la base del sostentamento materiale della popolazione. La simpatica abitudine di vivere vendendo telefoni cellulari e contratti per essi, ed ingerendo cibi coltivati a decine di migliaia di chilometri di distanza è recente; non era certo costume proprio delle popolazioni occidentali degli inizi del ventesimo secolo. Allora il modus vivendi era più tradizionale ed autoctono; quindi l’agricoltura risultava ancora, obiettivamente, la più importante delle attività umane.

Un’altra fondamentale motivazione risiedeva nella necessità di trovare un’occupazione per i reduci della prima guerra mondiale, rappresentati dall’Opera Nazionale Combattenti.

Nel corso del deprecato ventennio, si aggiunsero alle precedenti le necessità derivanti dall’autarchia e dalla limitazione delle importazioni. Ulteriori motivazioni si possono riscontrare in una sorta di particolare interesse che  Mussolini  sembrava nutrire nei confronti della società rurale. Tale interesse si sarebbe concretizzato anche in  iniziative volte a favorire il trasferimento della popolazione dai grossi centri urbani a piccoli centri rurali. 

Come viene più volte ribadito nel contesto di diversi post, non sono uno storico, non ho la pretesa di esserlo, né tantomeno ho la pretesa di condurre analisi storiche di una qualche validità; l’impressione che però ho tratto da ciò di cui sono venuto a conoscenza durante la mia avventura è che le problematiche inerenti all’agricoltura siano state, allora, valutate in una maniera più complessa di come lascino intendere certe sommarie descrizioni di ciò che accadde. Sicuramente in maniera più dettagliata ed approfondita di quella alla quale siamo stati abituati dai governi degli ultimi venti anni.

Contrariamente a ciò che è accaduto nel nostro (relativamente) recente passato repubblicano, infatti, chi venne chiamato ad occuparsi dei nuovi assetti da dare all’agricoltura italiana era riconosciuto come un esperto del settore; e ciò senza la necessità di scomodare i contemporanei “governi tecnici”, i quali, visti i risultati, di tecnico avrebbero anche ben poco. Seppur in una società antidemocratica e conservatrice come quella monarchica, diversi aspetti del problema vennero considerati, anche se non tutti, o almeno non tutti contemporaneamente. 
La condizione sociale, quella lavorativa, e la disponibilità materiale delle terre da coltivare dovevano necessariamente essere riconsiderate; e ciò era maggiormente vero in Sicilia, terra in cui la vita rurale era rimasta quella descritta dall’inchiesta di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, ed il possesso delle terre era saldamente mantenuto da pochi privilegiati, che al più estendevano tali privilegi a chi era in grado di stringere il giogo con maggiore energia.

La condizione del rurale era pessima da tutti i punti di vista; e lo era soprattutto quella del rurale siciliano. Totale dipendenza dal “padrone” senza alcuna garanzia, livelli di istruzione pari a zero, nessuna assitenza di tipo sanitario; mentre le terre rimanevano, spesso incolte, in possesso di un ristretto numero di persone.

Nel secondo decennio del ventesimo secolo, le questioni relative alle necessità dei reduci di guerra ed alle possibilità temporanea assegnazione di terreni incolti ai contadini vennero affrontate dall’Opera Nazionale Combattenti, e con la promulgazione del decreto Visocchi; un breve accenno ad ambedue viene fatto qui.

Le problematiche relative alla disponibilità delle terre presentavano due aspetti diversi. Uno era relativo alla proprietà dei terreni da assegnare; l’altro era inerente alle condizioni dei terreni. I due aspetti potevano intersecarsi, in quanto alcuni proprietari potevano mantenere  il possesso di terreni la cui condizione non ne consentiva l’utilizzo in senso agricolo.

Il processo di trasformazione delle terre non coltivabili, perché paludose,  aride o malsane , in terreno fertile introdusse il concetto di “bonifica integrale”.

Nel secondo decennio del ventesimo secolo, il concetto di bonifica integrale indicò la possibilità, in senso lato, della colonizzazione di un territorio, comprendendo anche le realizzazioni volte a risolvere anche le problematiche di natura sanitaria,  sociale ed economica del mondo rurale, cioè la lotta alla malaria, le strutture residenziali, quelle di servizio, e le opere necessarie al loro funzionamento. Le terre dovevano quindi essere non solo coltivabili, ma anche abitabili, consentendo così che venissero popolate. L’applicazione pratica di tale concetto trovò la massima espressione nella bonifica dell’Agro Pontino. Il regime, nel perseguire tali interessi, si avvalse di tecnici, tra i quali Arrigo Serpieri




per affrontare le problematiche connesse con la realizzazione pratica della bonifica integrale, mentre per popolare le terre cercò di spostare grandi gruppi di persone, o almeno, di incanalare i flussi migratori. Se quest’ultima  operazione poteva risultare semplice con gli ex combattenti, rimaneva difficoltoso per altri gruppi. Fu posta in atto una politica delle migrazioni interne, che prevedeva lo sfollamento delle città per popolare le campagne



Un accenno ad esse si trova qui 

In Sicilia, qualunque tentativo di risoluzione delle problematiche sopra menzionate si scontrava con un problema ben maggiore, apparentemente costituito dai proprietari terrieri, i grandi latifondisti. 
L’enormità del problema stava anche nel fatto che alcune famiglie mantenevano il possesso dei fondi da un millennio, e la proprietà degli stessi da un secolo; ma soprattutto consisteva nei rapporti che i latifondisti contraevano con la mafia rurale.

Riguardo a quest’ultimo problema, il regime fascista ritenne di poter individuare una soluzione nell’inviare in Sicilia Cesare Mori, il plenipotenziario “prefetto di ferro”; qui viene accennato alla vicenda.

Nel primo quarto del ventennio fascista, l’azione di rilancio dell’agricoltura, in Sicilia, si dimostrò alquanto scoordinata. L’attività principale consisteva nelle opere di bonifica stricto sensu (risanamento delle paludi, impianti per irrigazione dei terreni aridi, lotta alla malaria). Ciò avrebbe dovuto venire condotto assistendo i proprietari nelle opere di bonifica. L’assistenza sarebbe stata mediata dai Consorzi, e per fornirla venne fondato l’Istituto VEIII per la bonifica della Sicilia. La realizzazione dei centri rurali consistette in questa fase in un tentativo di riconversione, di riutilizzo, degli edifici costruiti per ospitare gli operai della bonifica; essa non si avvalse quindi dell’opera dell’Istituto VEIII




Troverai qui, Lettore, descrizione ed ubicazione dei villaggi costruiti nell’ambito della terza fase. Se leggerai il relativo post, potrai renderti conto di come i risultati di tale iniziativa siano stati fallimentari.



La quarta fase

Al termine della prima metà del ventennio l’azione pare farsi maggiormente incisiva, nella propaganda, ma anche nella pianificazione, compresa quella relativa alle migrazioni interne. 

Probabilmente all’inizio dell’esperienza fu ritenuto semplice ciò che in realtà non lo era. Le migrazioni interne, che sarebbero dovute avvenire spontaneamente sulla base di un incentivo, ottennero risultati inferiori alle aspettative. I metodi per sfollare le città si sarebbero dovuti sviluppare allora su binari paralleli: all’incentivo a migrare avrebbe dovuto corrispondere il disincentivo a rimanere.

In Sicilia, l’operazione si rivelava particolarmente difficoltosa, a causa di un particolare risvolto, non operante nelle altre regioni d’Italia. Mentre altrove il popolamento delle campagna spesso significava  il trasferimento di agricoltori in piccoli centri rurali, agglomerati di case costruite intorno ad nucleo di servizi essenziali (scuola, chiesa uffici) realizzando minuscoli villaggi a funzione mista (residenziale e di servizio)  in Sicilia il concetto di “borgo” doveva riguardare esclusivamente le strutture di servizio, con l’assoluto divieto di costruire gruppi di case coloniche, limitando così i contatti tra i singoli a luoghi di incontro ben determinati. Le dimore per le famiglie di agricoltori dovevano sorgere, isolate, sul fondo da coltivare.

Formalmente una tale filosofia viene fatta risalire al progetto di “Città Rurale” di Edoardo Caracciolo, ma sostanzialmente essa compare in Sicilia ben prima della formulazione dell’idea dell’architetto; e per una (strana) coincidenza tale concezione fa la sua comparsa poco dopo il termine delle operazioni condotte dal prefetto Mori. Infatti, almeno un decennio prima della pubblicazione del testo di Caracciolo veniva già enfatizzata l’assoluta necessità di disperdere le famiglie contadine sul territorio. Perché mai un tale atteggiamento? E perché tale necessità non sembrava emergere in altre regioni d’Italia?

Nei fatti una tale concezione della società rurale siciliana si trova negli scritti di Guido Mangano, allora direttore dell’Istituto VE, per il quale, ai fini del “bonificamento” risultavano indispensabili “il trasferimento e la fissazione dell’intera famiglia colonica sulla terra



All’inizio degli anni trenta, l’Istituto comincia ad occuparsi in maniera sistematica della progettazione delle infrastrutture. E’ all’interno di esso che vengono concepiti i concetti, poi trasposti in criteri più rigorosi, che daranno origine ai borghi costruiti a metà del ventesimo secolo.
Mangano chiaramente avverserà la riconversione dei villaggi operai, riconversione che avrebbe dato luogo a borghi misti. Ma, praticamente, (quasi) nessuna realizzazione si deve all’Istituto VEIII. I “borghi” costruiti durante quella che ho denominato “quarta fase” sono in realtà anch’essi villaggi riconvertiti, ma progettati in maniera da essere funzionali alla riconversione. Poiché consistono in diverse case coloniche (originariamente case cantoniere) più un edificio servizi, non seguono i dettami dell’Istituto VEIII relativamente alla dispersione degli agricoltori sul territorio. Anche la loro origine non ha quindi nulla a che vedere con l’Istituto



I villaggi di case cantoniere siciliani sono confinati alla provincia di Palermo; nascono come iniziativa sperimentale della Provincia, in cui la parte fondamentale dell’esperimento sembra consistere nel tentativo di convincere i cantonieri a divenire rurali. Furono costruite nell’ambito della realizzazione delle strade provinciali (che erano equiparate a strade di bonifica), e gran parte di esse sono tuttora proprietà della Provincia di Palermo. Troverai qui l’elenco dei siti, le immagini e l’ubicazione di essi. 
Al di fuori della provincia di Palermo esistono almeno altri due siti consistenti in minuscoli villaggi di case cantoniere; ma non sembra che essi siano stati costruiti con l’intenzione di farli divenire villaggi agricoli. Sono stati “centri rurali”, nel senso che hanno svolto la funzione di abitato autonomo, in campagna, lontano dai centri urbani; ma non pare che siano mai stati orientati all’agricoltura, se non relativamente alle sole necessità degli abitanti, analogamente a quanto avveniva presso altre case cantoniere, comprese quelle lungo le linee ferroviarie. 

Prescindendo dagli eventi strettamente confinati alla Sicilia, comunque, durante la prima metà del Ventennio si fa progressivamente più pragmatico l’approccio a tutte le problematiche che la bonifica integrale coinvolge. Dalla sanità




all’istruzione




passando per le politiche gestionali




Tutto ciò, in Sicilia, culminerà nel propagandistico “Assalto al Latifondo”.


I villaggi minerari

Sono stati qui brevemente menzionati anche i villaggi minerari progettati dal regime. Nel post viene manifestato il concetto che mi ha condotto ad includere tali realizzazione nella serie sui borghi rurali. Ma al di là dei caratteri comuni che riguardano l’ubicazione, in campagna, e gli occupanti, anch’essi esponenti del proletariato, vi è un’ulteriore motivazione che mi ha spinto a menzionarli. Nel corso della visita ad uno di essi, infatti, mi sono imbattuto in una delle più eclatanti manifestazioni dell’Errore. L’edificazione dei villaggi minerari, infatti, sebbene pianificata dal regime fascista, avvenne quasi interamente nel dopoguerra.


Un fenomeno del quale non ho trovato ancora spiegazione è che più del novanta percento degli accessi al post sui villaggi minerari avviene dal Brasile; ne ho dedotto che avrò inconsapevolmente inserito qualcosa, nel post, che deve avere un significato particolare in portoghese.


La quinta fase

 Nel gennaio del 1940, formalmente, l'Istituto Vittorio Emanuele per la Bonifica della Sicilia transitò nel neonato Ente per la Colonizzazione del Latifondo Siciliano; sostanzialmente, però, tale transito era avvenuto più di tre mesi prima. Lo scopo dell'ECLS non era solo quello di assistere i proprietari nelle opere di bonifica, ma anche quello di supportarli nella realizzazione delle infrastrutture, ma soprattutto quello di sostituirsi ad essi in tali realizzazioni se essi fossero stati inadempienti. L'ECLS avrebbe dovuto curare la realizzazione delle opere di competenza pubblica e contribuire a quelle di competenza privata. Nel caso uno o più proprietari fossero stati espropriati, l'ECLS sarebbe divenuta nel contempo anche parte privata




Alla direzione dell’ECLS fu posto Nallo Mazzocchi Alemanni già ispettore dell’ONC ai tempi della bonifica dell’Agro Pontino, e che prima ancora (come, del resto, Mangano) aveva prestato la propria opera professionale nelle colonie



Nonostante non vi fosse più Guido Mangano alla guida dell’Ente che si occupava di quella che a tutti gli effetti assumeva aspetto e funzioni di una riforma agraria, e nonostante Mazzocchi Alemanni avesse dichiaratamente orientamenti diversi riguardo all’assoluta necessità di isolare gli agricoltori


i borghi progettati (e realizzati) dall’ECLS continuarono a seguire la filosofia dell’Istituto VEIII, che anzi trovò una codifica ufficiale nella “Città rurale” di Caracciolo. I borghi ECLS furono quindi esclusivamente “borghi di servizio”, privi di unità abitative per i contadini, anche se in qualche caso l’impostazione del borgo, pur rimanendo il nucleo formalmente costituito dagli edifici di servizio, sostanzialmente si configurava come borgo a funzione mista.

La motivazione del persistere di una tale impostazione, nonostante le diverse convinzioni del Direttore dell’Ente, appare inspiegabile; tanto più che Mazzocchi Alemanni mostrava, nell’incarico che gli era stato assegnato, autonomia decisionale e determinazione, le stesse che aveva esibito durante la bonifica dell’Agro Pontino.
Nel primo anno di attivitá, l'ECLS realizzó otto borghi rurali, uno per provincia, con l'esclusione della provincia di Ragusa: Borgo Schiró (PA), Borgo Bonsignore (AG), Borgo Fazio (TP), Borgo Gattuso (CL), Borgo Cascino (EN), Borgo Giuliano (ME), Borgo Rizza (SR),  e Borgo Lupo (CT), dando così inizio a quella che ho denominato quinta fase



Questa proseguì con la progettazione e l'inizio della costruzione di altri sette borghi: Borgo Guttadauro (CL), Borgo Bassi (TP), Borgo Borzellino (PA), Borgo Callea (AG)Borgo Caracciolo (CT), Borgo Ventimiglia (CT), e Borgo Fiumefreddo (SR)




Sempre nell'ambito della quinta fase si era pianificata la costruzione di altri quattro borghi, di cui tre in provincia di Palermo. Essi non verranno mai realizzati sebbene alcune fonti li riportino come esistenti: pertanto la loro descrizione avviene nell'ambito di un unico post, intitolato "I fantasmi dell'ECLS".

La costruzione dei sette borghi iniziati nel 1941 fu interrotta dalla seconda guerra mondiale e riprese, con alterne vicende, al termine del conflitto




Mazzocchi Alemanni era fondamentalmente un dirigente “allineato”




alla caduta del regime conseguì la sua sostituzione nell’incarico di direzione con il “comunista” Mario Ovazza, come viene definito da Joshua Samuels nella sua tesi di dottorato.
In realtà, l’ing. Mario Ovazza  aveva partecipato ad un concorso per la scelta dei nomi da assegnare a centri rurali progettati dall’Istituto VEIII, e pertanto tanto “comunista”, all'epoca, non doveva esserlo. Anche se, però, è doveroso precisare che i nomi proposti da Ovazza e scelti dalla commissione, e cioè Borgo Sereno e Santa Fara, non possedevano, contrariamente ad altri (Arnaldia, Ducezia, etc,) alcuna connotazione propagandistica. Verrebbe da dire che era comunista come lo erano tanti antifascisti che hanno fatto parte dei Gruppi Universitari Fascisti, iscrittisi poi al PCI; come lo stesso Ovazza, del resto, che in quest'ultima veste è stato deputato all'Assemblea Regionale Siciliana per quattro legislature.  Ma ciò che, ad onor del vero, è doveroso sottolineare è che Mario Ovazza fu una delle vittime delle persecuzioni razziali in Sicilia (era di origini ebree, come d'altra parte denota il cognome); non venne deportato, ma durante la guerra venne precettato per svolgere umili lavori manuali, nonostante la sua invalidità. Il suo "viraggio" politico appare pertanto più che giustificato.
Ma per ciò che riguarda molti altri, il Presidente Napolitano pare abbia sostenuto che i GUF erano la fucina dell’antifascismo in tempi di repressione; i GUF avrebbero rappresentato, insomma, ciò che alcune persone nel mio ambito lavorativo spesso definiscono “un’opportunità”. Intendo riferirmi alle persone che, dopo aver assunto un impegno di qualche tipo ed aver preso la relativa posizione, poi non la mantengono quando si presenta  “un’opportunità”, sostenendo:  “se non lo faccio io lo farà un altro; tanto vale che lo faccia io, anziché farmi sfuggire l’opportunità”. 
Ma io, Lettore, nella mia limitatezza intellettuale spesso non riesco a cogliere le sottili differenze che intercorrono tra “opportunità” ed “opportunismo”, mentre nel fatto che alcune persone si prestino a svolgere certi compiti, ma altri li rifiutino mi sembra di intravedere una macroscopica differenza tra le persone stesse; il fatto che qualche altro accetti di fare ciò che qualcuno ha ritenuto di non dover fare rispecchia la profonda diversità morale che intercorre tra l’uno e l’altro, non il fatto di essere o meno in grado di cogliere un’opportunità. 
E conseguentemente i comportamenti di coloro che affermano di cogliere responsabilmente le opportunità mi richiamano inevitabilmente certi “Responsabili” che si sono trovati seduti in Parlamento in un recente passato. E che vi si trovano ancora adesso. Probabilmente, Lettore, starai pensando che mi stia dilungando in inutili e tediose perifrasi per esprimere un concetto quando invece avrei potuto usare il termine pù chiaro ed immediato di “voltagabbana”. E probabilmente hai ragione,  quindi termino qui le mie elucubrazioni e procedo con il mio racconto.

Ovazza prima, e Rosario Corona poi, si occuparono essenzialmente del completamento dei borghi del 1941 e della riparazione dei danni di guerra; l'unico borgo progettato dall'ECLS nel periodo post-bellico fu Borgo Africa (AG), anch'esso mai realizzato e pertanto incluso tra i "fantasmi dell'ECLS".

Mazzocchi Alemanni, in un certo modo, continuerà a rimanere un riferimento, e continuerà ad esprimere la propria concezione riguardo ai borghi rurali. Questo è, ad esempio, un estratto del discorso di Grieco al Senato, come riportato da “l’Unità” del 7 febbraio 1950






La sesta fase
 
Nel 1950 la promulgazione della legge regionale n. 104 del 27 dicembre  decretò la morte dell’ECLS. L’Ente venne trasformato in ERAS (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia) passando dalle dipendenze del Ministero Agricoltura e Foreste a quelle dell'Assessorato omonimo (art. 2). Per quanto riguarda i borghi rurali, l’ERAS inizialmente continuò l’opera iniziata dall’ECLS, interpretandone le “ultime volontà”




Era già stata pianificata dall'ECLS la realizzazione di altri due borghi di tipo “A”, uno in provincia di Palermo (Borgo Manganaro), l’altro in provincia di Messina (Borgo Schisina); troverai qui solo la descrizione del primo, in quanto del secondo si parlerà in una fase successiva.


La settima fase

E l’ERAS, oltre a farsi interprete delle ultime volontà dell’ECLS, sembrò anche raccoglierne l’eredità, almeno sempre  per ciò che riguarda i borghi. Ne edificò un certo numero, anche se più piccoli (quasi esclusivamente di tipo “B”), che rispecchiavano nell’impostazione e tentavano di ricalcare nell’architettura quanto era stato prodotto dall’ECLS.




L’unico borgo di tipo “A” realizzato in questa fase fu Borgo La Loggia in contrada Grancifone, Vi sarebbe, come borgo di tipo "A", anche Libertinia; ma i servizi di Libertinia si avvalevano in parte delle strutture preesistenti, realizzate negli anni Trenta.
L’ERAS aveva comunque sviluppato un piano capillare di edilizia rurale, che avrebbe coperto di raggi d’influenza l’intera superficie dell’isola. La realizzazione dei borghi di tipo “A” sarebbe però stata prevalentemente devoluta ad altri Enti, soprattutto ai Consorzi. Nella mappa redatta dall’Ente ed aggiornata al 1 gennaio 1956, risultava a carico dell’ERAS la costruzione di borghi di tipo “B” o “C”. Era prevista infatti, sempre a carico dell’ERAS, anche la realizzazione di diverse case coloniche, spesso a breve distanza l’una dall’altra, ed a volte raggruppate a formare villaggi



L’ottava fase

Un assunto sembrava infatti essere venuto meno: l’assoluto divieto all’aggregazione dei contadini. E’ evidente che le condizioni che rendevano necessario tale divieto erano mutate. Probabilmente gli interessi di chi gestiva l’agricoltura siciliana convergevano altrove; gestire “politiche agricole” stava divenendo più conveniente (e più remunerativo) che gestire agricoltura ed agricoltori. 
Vennero così realizzati diversi “Borghi residenziali”, agglomerati di case coloniche nelle adiacenze dei quali era previsto un borgo di servizio.


Questa fase fu l’ultima nella quale vennero costruiti borghi rurali; l’ho denominata “lo sperpero dell’eredità”, ma non per il nuovo assetto che era stato dato all’edilizia rurale. La maggior parte dei borghi progettati non fu realizzata, anche se vennero regolarmente pagati i progetti, ed in molti casi vennero realizzate le strade di accesso. I borghi realizzati spesso non furono nemmeno utilizzati; ed in certi casi non si sapeva nemmeno cosa fosse stato realizzato e cosa fosse rimasto allo stadio progettuale.

Ed alcuni tra quelli realizzati non aderivano nemmeno agli schemi sui quali si erano basate le realizzazioni precedenti; per alcuni borghi si utilizzò la definizione di “ridotto” in quanto non comprendeva tutti i servizi previsti per i borghi di tipo “B” o di tipo “C”. Fu tutto questo lo sperpero dell’eredità dell’ECLS, oltre che quello, ovviamente, del denaro pubblico; e verosimilmente erano queste le nuove attività che si rivelavano convenienti per chi gestiva l’agricoltura, in perfetto stile da “prima repubblica”.

Tra i servizi eliminati nella quasi totalità dei borghi dell’ultimo periodo vi fu quello religioso, eliminando ciò che nel mondo rurale aveva sempre rappresentato un punto di aggregazione. I borghi di tipo “C”, che avrebbero compreso chiesa e scuola, furono di fatto ridotti alla costruzione di scuole rurali; in questo, l’ERAS non fece altro che sostituirsi allo Stato, che già negli anni Venti si era curato della realizzazione di esse, compito poi nei fatti devoluto all’ECLS, che le aveva incluse tra i servizi essenziali che ogni borgo avrebbe dovuto erogare. 


La fase parallela

Vi fu però una “fase parallela” che durò quasi mezzo secolo, contemporanea alle ultime tre fasi, ma per la quale le regole del periodo sembravano comunque non valere. Gli insediamenti descritti a proposito di questa fase risultano essere quelli che da altri (Dufour, La China, Samuels) vengono classificati come "privati"; ma ciò non è casuale. Quando vigevano determinate condizioni, oppure quando non ne vigevano altre, gli assunti e le pianificazioni perdevano la loro importanza, e le regole non scritte potevano venire violate. Era non solo possibile, ma persino auspicabile, che i contadini vivessero nel medesimo agglomerato urbano. Era consentito mantenere gli insediamenti preesistenti se le condizioni lo richiedevano, così come poteva divenire imperativo eliminarli se le condizioni mutavano. E cosa venisse realizzato e cosa no, era subordinato all’interesse di alcuni, non a quello dell’agricoltura. Ciò avvenne con la progettazione di Mussolinia, nei pressi di Caltagirone, per riproporsi con Libertinia, con Santa Rita, con il villaggio Pergusa



E ciò accadeva mentre l’Istituto Vittorio Emanuele III per il bonificamento della Sicilia progettava di edificare Poggio Benito e di eliminare uno dei villaggi operai, cercando di supportare i Consorzi nella realizzazione di operazioni simili. Ma quando i privati, consorziati o meno che fossero, intendevano mantenere il controllo sulla loro proprietà ma servendosi comunque della sovvenzione pubblica, questo avveniva, e sempre al di fuori delle regole. Come verosimilmente accadde nel caso del fantomatico "Borgo Ciclino", o a Tudia.


I Consorzi

La fase dello “sperpero dell’eredità” è stata così definita con riguardo a ciò che l’ERAS e l’ESA, in quanto figlio e nipote dell’ECLS fecero o non fecero in Sicilia, ed a quanto denaro pubblico venne impiegato in progetti o realizzazioni sostanzialmente inutili. Ma nello stesso periodo si fece più evidente la presenza dei Consorzi, la cui attività era stata inibita in passato da quella, accentratrice, dell’ECLS, ed ai quali, invece, l’ERAS aveva evidentemente pensato di demandare diverse attività. Sono quindi i borghi dei Consorzi gli ultimi ad essere costruiti; sono questi, la cui esistenza è spesso misconosciuta, a segnare la fine definitiva di queste realizzazioni in Sicilia.



Accanto ad essi continuarono ad operare le scuole rurali (la cui esistenza viene appena sfiorata, insieme a quella di altri centri rurali, nell'epilogo), la cui realizzazione ed organizzazione si sviluppò per quasi un secolo, per iniziativa di stato, enti o consorzi. La fine dell’epopea dei borghi rurali coincide con la progressiva chiusura degli istituti elementari delle campagne, ambedue in stretto rapporto con una tendenza esattamente opposta a quella che fascismo avrebbe voluto favorire: lo spopolamento delle campagne, l’urbanizzazione, e l’emigrazione all’estero. La fine di ciò che l’agricoltura siciliana, nel bene e nel male, era stata per secoli.

Tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta si assistette alla progressiva meccanizzazione del’agricoltura. A questa avrebbe dovuto corrispondere un adeguamento della pianificazione della riforma agraria. La meccanizzazione dell’agricoltura si concretizzava in pratica in un’industrializzazione della stessa; e come accade in tutte le attività industriali rispetto a quelle artigianali si assisteva ad un incremento dei costi fissi (nel caso specifico, acquisizione e manutenzione delle macchine) che si sviluppava parallelamente ad un incremento della capacità produttiva (possibilità per un singolo individuo di curarsi della coltura di maggiori estensioni di terreno). Di solito, in tali condizioni si cerca di massimizzare la produzione per ridurre l’incidenza dei costi fissi di produzione: se con un trattore ed un aratro meccanico si riescono ad arare venti ettari di terreno anziché dieci, la spesa relativa al mezzo meccanico inciderà per la metà su ogni unità di produzione. Sebbene dovesse essere ovvio che l’incidenza dei costi fissi si riduce all’aumentare della produzione, l’estensione dei poderi concessi ai contadini si ridusse grandemente rispetto a quella prevista dalla riforma fascista.

La prima, inevitabile, conseguenza fu l’emigrazione. Non era possibile vivere con i proventi derivanti da appezzamenti di terreno così piccoli. La seconda conseguenza (consequenziale alla prima), fu la fine dell’agricoltura siciliana così come era esistita fino alla metà del Ventesimo secolo; ma in un mondo che si preparava alla globalizzazione, ciò appariva di un’importanza del tutto secondaria.
L’epilogo, in molti casi, consistette nella ricostituzione del latifondo. Molte proprietà che erano state frammentate vennero ricomposte, “convincendo” gli assegnatari a cedere i terreni ricevuti, avendo dalla propria parte la legge ed anche la forza. La legge prevedeva che la vendita  dei terreni di cui l’assegnatario era divenuto proprietario considerasse in posizione prioritaria chi possedeva i poderi viciniori; e spesso, chi possedeva i poderi viciniori portava cognomi “famosi”, o aveva qualche parente con cognome “famoso”. Ma di tutto questo, il governatore Crocetta sembra essersi reso conto solo di recente


E questo, Lettore, appare come la chiusura di un cerchio. Sembra di essere ritornati ad uno dei post iniziali (la mafia, il latifondo). Nulla è cambiato, e nulla cambierà. Come un trasformista in grado di cambiare radicalmente veste ed aspetto, ma la cui abilità nel far ciò è dovuta all’individuo che sta sotto le vesti. Che rimane, sempre e comunque, il medesimo.

Detto questo, qui non mi rimane altro da dire. E non mi rimane altro da mostrare se non una mappa che riporta la posizione di molti degli insediamenti citati nel testo. 



Ho tralasciato i borghi antecedenti al Ventesimo secolo ed i villaggi minerari. I siti sono riportati in diverso colore e con simboli diversi i siti realizzati nelle varie fasi. Alcune delle realizzazioni degli ultimi periodi, quando venne abolito il veto riguardo all’aggregazione della popolazione rurale, sono, almeno sostanzialmente, dei borghi misti (residenziali e di servizio); il simbolo che li individua è il triangolo. In diverse zone dell’isola, sono stati realizzati agglomerati con esclusiva funzione residenziale; essi sono identificati dal simbolo della casetta. Questa è la legenda della mappa.



La mappa non ha ovviamente la pretesa di voler fornire alcuna indicazione utile all’identificazione delle posizioni precise; non è pensata avendo in mente l’idea dell’individuazione topologica dei luoghi. Serve solo a rendere graficamente quale sia l’ordine di grandezza, in senso numerico e geografico, di ciò che venne eseguito. Conseguentemente, si può avere un’idea anche dell’impegno che è stato necessario per portare a termine la serie sui borghi. 

Devo sottolineare che senza il supporto degli strumenti messi a disposizione sul Web, soprattutto il Geoportale Nazioneale e GoogleEarth, il lavoro sarebbe stato sicuramente incomparabilmente più lungo e difficile, probabilmente impossibile. So bene che dietro tali strumenti vi sono persone; persone che non conosco ma alle quali va comunque il mio ringraziamento. Così come il mio ringraziamento va a diverse persone che conosco, e che in diversa misura, a volte persino inconsapevolmente, hanno fornito supporto e contributo a questa serie di post.

Innanzitutto Cinzia Cicero, senza l’apporto della quale tutto ciò probabilmente non sarebbe mai avvenuto.

E poi il prof. Vincenzo Sapienza, la cui gentilezza è stata in grado di generare spontaneamente un flusso di informazione (da lui a me, evidentemente) assolutamente determinante ai fini di questo lavoro

Joshua William Samuels, che, oltre a rappresentare un’insostituibile sorgente di dati, ha costituito uno stimolo non indifferente ad approfondire l’argomento.

Ma soprattutto l’ing. Angelo Morello la cui gentilezza e disponibilità, oltre a fornire direttamente e consentirmi l’accesso a molte informazioni, lo ha reso piacevole e costruttivo interlocutore in lunghe conversazioni.
Ed insieme a lui, all'ESA, la d.ssa Bergamaschi, il dott. Inzerillo.

Anche il titolo che ho dato alla serie, “La Via dei Borghi”, intende essere un tributo al lavoro dell’ESA, e non una forma di plagio.

Il sig. Matteo Dino, che mi ha sopportato durante le ricerche di archivio, ed il sig.Cannariato, che ha costretto il sig. Dino a sopportarmi.

Vittorio Riera, della conoscenza del quale mi ritengo onorato.

La simpaticissima Marilena La China, delle cui competenze mi sono avvalso, magari sfruttando un po’ la sua naturale disponibilità.

L’architetto Orlando del comune di Castronovo di Sicilia; così come la sig,ra Saimbene del comune di Caltagirone. Ambedue di una cortesia non comune.

La dottoressa Fiorella Scaturro. già direttore dell'ASCEBEM. per la disponibilità e la gentilezza mostrate.

Il sig, Candela di Fulgatore, che ha un senso dell’ospitalità eccezionale, nel senso più letterale dell’aggettivo.

Ringrazio inoltre il personale della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, che riesce a rendere più rapido ciò che ad un primo impatto appare come un’impresa lunga e tediosa.

Ringrazio anche le persone che ho incontrato nel corso di questa avventura, che spesso mi hanno accompagnato personalmente sui luoghi da visitare e da fotografare, senza chiedersi e chiedermi nulla, con la naturalezza e la gentilezza di chi risponde semplicemente ad una domanda. E’ accaduto a Borgo Bonsignore, a Santa Rita, a Pergusa, a Borgo Petilia, a Borgo Cascino, a Borgo Lupo, a Libertinia, a Borgo Pasquale, a Santa Barbara…



Ma soprattutto ringrazio di cuore coloro che non ho menzionato qui. Coloro che hanno fatto qualcosa per me, ma dei quali non riesco a ricordarmi mentre scrivo. Qualunque sequenza di eventi che conduca ad una condizione migliore, grande, piccola, importante, trascurabile che sia, non sarebbe realizzabile senza il contributo di tante persone delle quali poi non ci si ricorda più. Magari il contributo del singolo è modesto, ma la somma di tutti i contributi si unisce a formare quella spinta propulsiva senza la quale nulla sarebbe possibile. Non sarebbe possibile una banalità come il mio viaggio tra i borghi di Sicilia, così come non sarebbero possibili le più grandi conquiste dell’umanità. A loro, il mio grazie dal più profondo del cuore.


lunedì 27 agosto 2012

L'Insufficienza Venosa Cronica Cerebro Spinale

Da poco meno di quattro anni, ai malati di sclerosi multipla (o sclerosi a placche, o SM) sembra di scorgere un chiarore lì, in fondo al tunnel buio della malattia. http://www.blogger.com/img/blank.gifIl chiarore ha anche un nome, e si chiamerebbe CCSVI, acronimo che starebbe per Chronical CerebroSpinal Venous Insufficiency, Insufficienza Venosa Cronica Cerebro Spinale. Anzi, per essere più precisi, CCSVI sarebbe il nome del “buio” nel tunnel, mentre il chiarore sarebbe rappresentato dall’angioplastica percutanea (PTA); ed il portatore di tale fiaccola assume nome e sembianze del prof. Paolo Zamboni.

Inizialmente, ciò che era stato detto era, in pratica, che la causa della sclerosi multipla era praticamente stata trovata, e che era eliminabile, ed il messaggio (non così tanto subliminale, poi) che veniva trasmesso era che l’eliminazione della causa, sebbene probabilmente non in grado di far regredire totalmente i sintomi della malattia, soprattutto se in stato avanzato, ne avrebbe comunque sicuramente arrestato la progressione. Più recentemente, dopo un primo entusiastico impeto, ufficialmente ci si è assestati su posizioni più possibiliste e moderate; ma il messaggio è rimasto il medesimo.

Il presente post vorrebbe effettuare una rapida revisione degli eventi passati e della condizione presente, allo scopo di verificare se il messaggio che tuttora viene trasmesso abbia una base scientifica o meno

Desidero precisarti però, Lettore, che comunque è principalmente questo post a non avere per sé alcuna pretesa di rigore scientifico. Quanto riportato è una semplice descrizione dei fatti, sebbene non acritica, e pertanto, non troverai riferimenti bibliografici qui; sono sicuro che, se vorrai, sarai perfettamente in grado di risalire ai lavori originali da cui certe informazioni sono state tratte. Ciò che farò sarà semplicemente quello di verificare se il modo in cui si è evoluta e sta ancora evolvendo la vicenda abbia seguito e segua, o meno, la strada del rigore scientifico. Nessuna conclusione verrà fornita; sarai Tu, come al solito, a decidere come ritieni che stiano le cose.

Dalle statistiche di accesso al blog so che vi sono alcuni Lettori (pochi) che accedono ad esso periodicamente. Se Tu non dovessi annoverarti tra loro, ma dovessi essere giunto qui indirizzato da un motore di ricerca, forse troveresti utile leggere alcune considerazioni sul metodo scientifico che puoi trovare qui, e questo non perché la mia opinione al riguardo rivesta chissà quale importanza, ma soltanto perché ciò può rendere molto più semplice la comprensione di ciò che leggerai nel prosieguo.

THE BIG IDEA

Nel novembre del 2006 viene pubblicato sul Journal of the Royal Society of Medicine un articolo a firma del prof. Paolo Zamboni dal titolo: The Big Idea: Iron-dependent inflammation in venous disease and proposed parallels in multiple sclerosis. In esso (basato sui contenuti di una conferenza che lo stesso prof. Zamboni aveva tenuto quattro mesi prima nel corso di un meeting organizzato dalla medesima società), egli prende in considerazione l’insufficienza venosa cronica (IVC o in inglese CVI – Chronic Venous Insufficiency) degli arti inferiori, cercando di mettere in relazione la classificazione CEAP con le cause dell’insufficienza venosa, e descrivendo sommariamente i modelli teorici, basati sulle acquisizioni più recenti, che descriverebbero i meccanismi che conducono alla comparsa delle manifestazioni cliniche della IVC degli arti inferiori, con particolare riguardo al ruolo dei depositi di ferro.

Riporta quindi delle osservazioni personali relative ad anomalie del deflusso venoso dalle regione cervicoencefalica in soggetti con sclerosi multipla. Compara i reperti istologici che si rilevano nella IVC degli arti inferiori con quelli osservabili nei soggetti affetti da sclerosi multipla. Sottolinea la relazione di contiguità tra vasi venosi e placche della sclerosi multipla. Ipotizza un’alterazione della Barriera EmatoEncefalica causata dal processo infiammatorio previsto dal modello della IVC negli arti. Conclude che vi sono diverse similitudini tra le due condizioni, degne di ulteriori approfondimenti.

In pratica, il professor Zamboni ha l’intuizione (the Big Idea, appunto) che la Sclerosi Multipla potrebbe essere una manifestazione di insufficienza venosa cronica a carico del sistema nervoso così come edema, pigmentazioni, dermatite ed ulcere sono manifestazioni di insufficienza venosa cronica a carico delle gambe. Ed adotta un modello teorico analogo a quello adottato per le gambe, che descrive il modo in cui le alterazioni del sistema venoso conducono alle alterazioni istologiche osservabili. E poiché intuizione e modello teorico sono le prime fasi con le quali il metodo scientifico indaga, afferma la necessità di proseguire su questa strada, per confermare o negare l’intuizione.

L’EMODINAMICA VENOSA INTRACRANICA

Meno di un anno dopo il professor Zamboni, in collaborazione con altri sei ricercatori, pubblica sulla rivista Current Neurovascular Research un articolo dal titolo Intracranial Venous Hemodynamics in Multiple Sclerosis. In questo lavoro vengono arruolati 89 soggetti consecutivi affetti da sclerosi multipla e 60 soggetti sani, e ne viene esaminato il flusso venoso intracranico con ecoDoppler transcranico. Per ognuno di essi viene rilevato il flusso in corrispondenza di almeno una delle vene cerebrali profonde e del seno trasverso, verificando se sia monodirezionale (assenza di reflusso), bidirezionale (reflusso di durata <0.5s) o se vi sia inversione di flusso (reflusso di durata >0.5 s). Sulle vene cerebrali profonde viene inoltre determinata la velocità massima e minima di flusso, e sulla base di esse viene calcolato un indice di resistenza, che viene posto in relazione con un’ipotetica impedenza al deflusso.

In nessuno dei soggetti sani viene rilevato reflusso sulle vene cerebrali profonde, mentre solo nel 7% di essi viene rilevato in corrispondenza del seno trasverso; nei soggetti malati le percentuali sono, rispettivamente, 38 e 51. Poiché al reflusso corrispondono, in pratica, velocità minime negative, ciò contribuisce, secondo gli Autori, ad incrementare l’impedenza al deflusso venoso nei malati. Essi considerano quindi tale condizione equivalente all’insufficienza venosa cronica degli arti, ed auspicano che vengano condotti ulteriori studi sulle vie di deflusso extracraniche.

Per inciso, Zamboni e collaboratori calcolano un indice di resistenza che, per convenzione, è denominato indice di impedenza venosa; però essi affermano che le velocità negative (reflusso) rilevate hanno un’influenza sulla misurazione dell’impedenza venosa di cui l’indice di resistenza è espressione. L’indice di resistenza venosa è il rapporto tra la differenza tra velocità massima e minima, e la velocità massima. Se Tu, Lettore, non dovessi avere idea di cosa in effetti sia l’impedenza, puoi provare (se non hai pretese di rigore matematico) a dare un’occhiata al mio post qui, e potrai capire da solo come l’indice di resistenza non possa avere nulla a che vedere con l’impedenza.

Ed ancora, alla fine dello studio, viene affermato che “E’ stato dimostrato su un modello emodinamico che un indice di resistenza maggiore di 1, come quello rilevato nel nostro studio sulle vene cerebrali profonde, è altamente predittivo di stenosi vascolare critica”. Il modello emodinamico cui viene fatto riferimento (è di Ilse Van Tricht) è un modello meccanico di accesso vascolare (come quello, ad esempio, per emodialisi) che prevede una comunicazione tra arteria e vena. L’indice di resistenza citato, quindi, è un indicatore della resistenza arteriosa a valle, e nel modello di Ilsa Van Tricht risulta predittivo di stenosi di un vaso irrorato da flusso arterioso, in cui il flusso è generato da onde di pressione prodotte a monte dal cuore (o, nel caso del modello citato, da un simulatore di pompa cardiaca, Harvard 1423 per la precisione); ed i risultati non sono assolutamente applicabili ad un sistema in cui le onde di pressione vengono generate in tutt’altro modo

Non vorrei che questo suonasse come una critica allo studio in toto. E’ solo perchè è giusto essere chiari riguardo a come stanno le cose. Probabilmente, le affermazioni, le enunciazioni e le citazioni inesatte e superflue peggiorano la qualità di uno studio anziché dargli un’aura di scientificità

L’INSUFFICIENZA VENOSA CEREBROSPINALE CRONICA

A due anni di distanza dal primo lavoro scientifico, il professor Zamboni pubblica sul Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry (appartenente al gruppo del British Medical Journal) in collaborazione con altri sette ricercatori, un lavoro scientifico nel quale vengono descritti gli studi condotti sulle vie di deflusso extracraniche, come auspicato nel lavoro di un anno prima; in esso vengono poste le basi per la definizione di Insufficienza Venosa Cerebrospinale Cronica. La pubblicazione è di sole sette pagine, bibliografia compresa, e ricca di fotografie, tabelle e disegni, e quindi non sembrerebbe contenere chissà quale mole di dati; ma in realtà mettere insieme tutto ciò deve essere stato “un gran lavoraccio”. Infatti, sono stati esaminati in singolo cieco ben 300 soggetti, sottoposti sia ad ecoDoppler transcranico, sia ad ecocolorDoppler dei vasi del collo, secondo una procedura molto più lunga della precedente. Inoltre più di un terzo di essi (113 soggetti) è stato sottoposto ad esame flebografico,metodica invasiva e non di immediata realizzazione (occorre un minimo di preparazione chirurgica, esami di laboratorio, la presenza dell’anestesista, etc,). Se si considera che tutto ciò doveva già essere stato portato a termine ben prima della pubblicazione sul JNNP, in quanto il lavoro costituì l’oggetto della tesi di specializzazione del dott. Zuolo nell’Anno Accademico 2007-2008, si ha un’idea di quanto alacremente si sia lavorato a tale progetto.

Il gruppo di lavoro si avvale di cinque parametri (destinati a divenire quindi “criteri diagnostici”) rilevabili con ecocolorDoppler. Risulta evidentissima la stretta correlazione tra la presenza dei criteri e quella della malattia, ma ciò che appare davvero impressionante è la quasi totale assenza dei medesimi criteri nelle persone sane.

La flebografia selettiva mostra la presenza di vie di deflusso anomale nei soggetti erano presenti almeno due criteri su cinque (in pratica, nei malati, considerato che nei soggetti sani ciò non si rileva mai); ma, cosa che ai fini della presente discussione è molto più importante, dimostra anche che a monte dei restringimenti patologici delle vene la pressione venosa è aumentata rispetto ai soggetti sani. Questo ha delle importantissime implicazioni terapeutiche, perché abolendo il restringimento, la pressione dovrebbe abbassarsi riportando l’emodinamica venosa in una situazione paragonabile a quella dei soggetti che non hanno la malattia. Per quel che concerne la presente discussione, invece, ciò è particolarmente importante in quanto in diretta relazione con il concetto di insufficienza venosa cerebrospinale.

L’EVOLUZIONE

E’ ovvio che quanto descritto accenda le speranze dei malati e l’interesse delle associazioni che li riuniscono. E’ ovvio che accenda anche diversi interessi di altra natura, come per esempio quello che l’assessorato regionale siciliano esternava al prof. Zamboni con la comunicazione prot. 0541 del 15 febbraio 2010, nella quale viene specificamente menzionato l’interesse “a formare alcuni specialisti all’utilizzo di tale nuova metodica” regolamentando l’accordo tramite la stipula di protocollo d’intesa. Posizione questa non in linea con quella che il Consiglio Superiore di Sanità avrebbe adottato un anno dopo, ma in compenso perfettamente in linea con politica e principi che hanno ispirato la Regione Sicilia negli ultimi due anni e mezzo, sia per ciò che riguarda la sanità, sia per tutte le altre cose.

Due anni più tardi, però, uno studio, non in cieco, eseguito da F. Doepp in collaborazione con altri quattro ricercatori, non mostrava alcuna differenza significativa riguardo alla presenza dei criteri tra i soggetti malati e quelli sani. A conclusioni analoghe giungeva F. Baracchini con altri cinque ricercatori, l’anno successivo, con uno studio in cieco. E nello stesso anno anche Zivadinov, con un grosso studio multicentrico in cieco, confermava tale situazione.

Pertanto, nella seduta del 25 febbraio del 2011, il Consiglio Superiore di Sanità non ha riconosciuto l’Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale come entità nosologica, e di conseguenza non ne ha riconosciuti nessi causali con la sclerosi multipla. Ha quindi ritenuto necessario che tutte le procedure chirurgiche relative alla correzione della cosiddetta Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale venissero realizzate nell’ambito di studi clinici controllati e randomizzati, e che rispondano a determinati requisiti; e ciò, evidentemente, per evitare che le persone ammalate, rincorrendo vane speranze siano oggetto di attività speculative.

La Società Italiana di Angiologia e Patologia Vascolare ha scritto una lettera aperta al Consiglio Superiore di Sanità riconoscendone la correttezza delle deduzioni ma criticandone la posizione, sostenendo che,poiché i pazienti desiderano essere diagnosticati e trattati per l’Insufficienza Venosa Cronica Cerebrospinale a prescindere dalla riconosciuta validità delle procedure diagnostiche e terapeutiche, vi era comunque una domanda, che a questo punto sarebbe stata soddisfatta da strutture private. Ciò avrebbe aggravato il problema relativo alla tutela dei malati; quindi sarebbe stato auspicabile ripristinare la situazione precedente che consentiva al medico di struttura pubblica qualificata di erogare la prestazione sotto la propria responsabilità.

Bada bene Lettore: nella comunicazione del Consiglio Superiore di Sanità non è mai stata menzionata alcuna differenza tra strutture pubbliche o private. Le strutture private non sono mai state sollevate dall’obbligo di adottare i vincoli ritenuti necessari dal Consiglio. La comunicazione, in pratica, ribadiva la necessità di un approccio realmente scientifico al problema. Ma perché mai il Consiglio avrebbe sentito questo bisogno?

LA CONDIZIONE ATTUALE

L’Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale era già stata comunque riconosciuta come entità nosologica. Anzi, è più corretto dire che le alterazioni anatomiche che si vorrebbe fossero causa della condizione indicata come “Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale” sono state riconosciute tra le patologie malformative. Ovviamente, ciò non implica che siano effettivamente causa di insufficienza venosa. Ed a maggior ragione, non significa che siano la causa della sclerosi multipla. Ma è stato possibile aggirare il problema del vincolo posto dal Consiglio Superiore di Sanità e riprendere i trattamenti: si sta trattando una malformazione, e non la sclerosi multipla. Le linee guida dell’International Union of Angiology relativo alle malformazioni venose, contenute in un documento di consenso redatto nel 2009 (Vol. 28, no. 6), asseriscono che la maggior parte delle malformazioni venose di piccole dimensioni ed asintomatiche andrebbero trattate con la semplice osservazione, o il trattamento compressivo. E le malformazioni in questione sono piccole; e se non sono responsabili della SM, che sintomi darebbero mai? Allora, perché trattarle con l’angioplastica? Perché l’indicazione al trattamento è specifica per le lesioni “ostruenti il deflusso ed i drenaggio di organi vitali (ad esempio fegato, encefalo)”; ma come si fa a stabilire se una determinata malformazione stia davvero ostruendo “il deflusso ed il drenaggio”? Tra i redattori del documento di consenso vi è il prof. Zamboni e quindi vi sono chiaramente i suoi lavori tra i riferimenti bibliografici. Abbastanza stranamente, il suo lavoro più noto e più discusso, quello che tratta della “liberazione” nella sclerosi multipla, il cui riferimento bibliografico è al numero 203, sembra venga citato sempre a sproposito nel documento.

L’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, dopo un iniziale ottimismo ha ritenuto di dover adottare un atteggiamento più cauto rispetto ai primi entusiasmi. Ha finanziato una sperimentazione multicentrica in cieco, condotta su un numero davvero elevato di pazienti. E’ verosimile che qualcosa di definitivo potrà venire da essa. E questo è veramente positivo e forse anche veramente risolutivo. Per quel che riguarda gli interessi perseguiti dalla società, ovviamente. Ma il punto che sto discutendo qui non è affatto questo.

Nell’ottobre del 2011, Laupacis ed altri pubblicavano una metanalisi eseguita sui lavori fino ad allora pubblicati. Trovavano una correlazione tra la presenza dei criteri e quella della malattia, ma con disomogeneità inspiegabili. In certi lavori, le anomalie venose sono presenti in tutti i malati ed in nessun individuo sano. In altri, non vi è la benché minima differenza. Ciò che contribuisce a far comparire la correlazione è il numero dei soggetti trattati: se in uno studio che ha arruolato diverse centinaia di pazienti si trova una forte correlazione, questo da solo controbilancerà diversi studi nei quali la correlazione non c’è ma che comprendono pochi soggetti. Ma questo non contribuisce a chiarificare il quadro, anzi.

Nell’ambito di un singolo studio, i risultati sono coerenti. O si trova un’alta correlazione, oppure essa è nulla. Ciò che lascia profondamente perplessi è l’incoerenza tra gli studi. Se vi è un nesso causale tra le anomalie e la malattia, esse in qualche misura devono essere presenti in tutti (o quasi- potrebbero non essere state rilevate, in rari casi) i soggetti malati. Vi possono essere diverse spiegazioni della loro presenza nei soggetti sani, ma questo ha meno importanza: è la variabilità tra i malati che sembra inspiegabile. Se le malformazioni venose sono causa di insufficienza venosa, e questa è causa della SM, come fanno ad ammalarsi i soggetti che non ne hanno? Un’ipotesi può essere quella di Zivadinov: le anomalie venose non sono la causa, bensì la conseguenza della malattia. Questo spiega la correlazione tra le anomalie e la malattia, e potrebbe anche spiegare la variabilità; ma allora, a che servirebbe trattarle, e con una tecnica invasiva come l’angioplastica? A questo forse darà risposta lo studio multicentrico CoSMo (è quello finanziato dall’AISM) , che così risolverebbe se non la questione scientifica, almeno quella clinica. Vi sarebbero però delle possibilità alternative. Una di queste sarebbe, ad esempio, il fatto che l’insufficienza venosa sia una concausa della malattia. Questo spiegherebbe non solo la correlazione tra le anomalie e la malattia da un lato, e l’assenza di esse in molti malati dall’altro, ma anche la presenza delle anomalie nei soggetti sani, che in assenza delle altre cause non svilupperebbero la malattia.

Un’altra sarebbe, il fatto che le anomalie venose non siano l’unica causa di insufficienza venosa. Ed anche questo spiegherebbe la correlazione tra le anomalie e la malattia da un lato, e l’assenza di esse in molti malati dall’altro; i malati senza anomalie venose ma con altre cause di insufficienza venosa si ammalerebbero, ma presenterebbero comunque un sistema venoso normale.

Ma quali potrebbero essere le altre cause che agiscono in sinergia con l’insufficienza venosa? O quali potrebbero essere le altre, diverse, cause dell’insufficienza venosa al di fuori delle anomalie del sistema venoso?

Una diversa causa, o concausa, potrebbe essere rappresentata dall’aumentata permeabilità della Barriera Emato Encefalica che lo stesso prof. Zamboni vorrebbe conseguenza dell’ipertensione venosa. E Marian Simka si chiedeva qualche tempo fa se non fosse opportuno tentare una terapia con farmaci (quali?) in grado di ridurre la permeabilità della BEE, o con altri che interferissero con l’attività delle molecole di adesione.

Ed ancora un aumento della pressione venosa si ha nelle condizioni di insufficienza cardiaca, o, con aspetti e meccanismi diversi, nell’insufficienza tricuspidale.

In realtà, l’importanza fondamentale del lavoro di Laupacis non sta nel verificare se sia giusto o meno eseguire l’angioplastica sui soggetti con SM; a questo penserà lo studio CoSMo. Ma quest’ultimo, comunque andranno le cose, non potrà rispondere all’implicazione contenuta nei risultati del lavoro di Laupacis: tutta la questione, dalla “Big Idea” ai nostri giorni, è stata mai affrontata scientificamente? O vi sono grandi manchevolezze in questo aspetto?

IL METODO SCIENTIFICO E “THE BIG IDEA”

Siamo giunti al punto, Lettore. Questo è l’argomento di cui avrei volto parlare, nonché la causa del precedente sproloquio: sono stati rispettati i passi per indagare la questione con metodo scientifico? Come forse avrai letto qui, non tutti i passi sono perfettamente eseguibili in ogni situazione. Viene portato l’esempio del metodo sperimentale a proposito delle atmosfere stellari, ma vi sono milioni di esempi diversi. Vi sono circostanze nelle quali i passi non possono essere seguiti alla perfezione, e si cercano surrogati, escamotage, stratagemmi per fare salvo il modo scientifico di procedere. Ma che dire quando i passi potrebbero essere seguiti, e ciò non viene fatto? Quando i passaggi opportuni vengono deliberatamente omessi? Quando si evita di porre domande la risposta alle quali consentirebbe di capire anziché provare alla cieca? Quando si eseguono terapie su persone senza avere l’evidenza che ciò che si sta facendo è corretto? Ma soprattutto, perché avviene ciò?

Ripartiamo dall’inizio, dal metodo scientifico e da “The Big Idea”. Il metodo scientifico presupporrebbe un’intuizione, un modello teorico, un modello sperimentale, ed una verifica. Come abbiamo visto, nelle Scienze Biologiche, il modello teorico può essere biologico, biochimico, descrittivo… mentre il modello sperimentale è spesso animale. In Medicina, poi, la verifica deve essere in cieco, e le terapie devono passare al vaglio dell’EBM.

Qui, l’intuizione iniziale c’è: è “the Big Idea”. Nulla da dire su di essa, solo qualche precisazione da fare. La prima “idea”, anche se non sappiamo quanto “big”, di una relazione tra la SM ed il sistema venoso non è del 2006, ma risale a qualche anno prima, 143 per la precisione. La prima “idea” riportata al riguardo fu infatti di un distinto signore che si chiamava Rindfleisch. Rindfleisch è un nome molto noto nell’anatomia patologica umana; le “cellule di Rindfleisch” del tifo, ad esempio, portano il suo nome. Nel 1863, Rindfleisch riportò l’osservazione per cui nei preparati istologici di encefalo umano ove erano presenti piccole placche relative a SM, al centro di ogni placca vi era invariabilmente una vena di piccolo calibro. Questo avrebbe un significato ben preciso. Un preparato da osservare al microscopio su vetrino è assimilabile ad una sezione bidimensionale di una struttura tridimensonale. Se qualcosa comincia a diffondersi uniformemente nel tessuto a partire da un punto, lo fa con simmetria sferica, la cui sezione è circolare. Se qualcosa si diffonde a partire da un vaso cilindrico, la morfologia è teoricamente un ellissoide, la sezione resta circolare, ed al centro vi è la sezione del vaso da cui ha avuto origine la diffusione; qualunque cosa diffonda dal vaso lo fa seguendo la legge di Fick, e la morfologia risulta sempre simile.

Questa osservazione è stata riproposta periodicamente negli anni, anzi nei secoli, e con essa l’ipotesi di un’origine “vascolare” della sclerosi multipla. Anche la risultante di un processo flogistico su base autoimmune seguirebbe una morfologia analoga, per cui da tempo si prendeva in considerazione quest’ultima ipotesi per spiegare l’osservazione.

Di conseguenza, “The Big Idea” non consisterebbe semplicemente nel fatto che il sistema venoso è coinvolto; essa prende in considerazione anche la composizione della placca. Non mette in relazione solo placca e vena, ma anche costituzione della placca e reperti istologici nell’insufficienza venosa degli arti inferiori. Usa i meccanismi che si ritiene siano operanti nell’insufficienza venosa delle gambe per applicarli al Sistema Nerovo centrale. Qui siamo oltre l’intuizione. Siamo al passo successivo. Siamo al modello teorico.

IL CONCETTO DI INSUFFICIENZA VENOSA E LA CLASSIFICAZIONE CEAP

So far, so good, direbbero gli anglosassoni. Il prof. Zamboni usa il modello teorico adoperato per l’insufficienza venosa degli arti applicandolo all’encefalo. E cita la classificazione CEAP a questo proposito.

Sai, Lettore, cos’è la classificazione CEAP? E’ una gigantesca classificazione che si propone di raggruppare tutte le patologie venose conosciute sotto un unico ombrello. Nelle Scienze Biologiche e Naturali, le classificazioni sono molto comuni. Si adoperano nella tassonomia così come nella clinica medica. Perché sono uno strumento di lavoro. Le classificazioni adoperano un criterio per differenziare. Si prende un gruppo di entità che sembrano appartenere ad uno stesso insieme, e si individua un parametro rispetto al quale queste entità sono diverse. Le classificazioni sono sempre esistite, e sono state variate nel corso degli anni in rapporto alle acquisizioni più recenti che riguardano i parametri utilizzati per fare la differenza. In medicina, ciò è successo spesso nel campo delle neoplasie ematologiche, ad esempio. Le classificazioni di linfomi e leucemie hanno subito poderosi rimaneggiamenti; alle differenze classificative corrispondevano differenze nella prognosi e nella terapia.

La classificazione CEAP ha subito invece poche revisioni con gli anni, e nessuna realmente sostanziale (due, di poco conto, nel 2000); non c’era molto da cambiare nella classificazione CEAP. L’ambizioso progetto di classificare tutte le diverse patologie venose come fossero un’unica cosa prese corpo nel 1994 a Maui.

Vedi, Lettore, se io dovessi mettere insieme un’armata di professoroni per realizzare un progetto importante, li porterei tutti in una casa isolata dell’Alaska, in inverno, non a Maui. In un posto dove non ci sarebbe nient’altro da fare se non occuparsi della classificazione; non in uno dove non vedi l’ora di uscire per andare a spasso tutta la giornata. In una situazione come quest’ultima, il fatto che le persone diano il peggio di se stesse è ciò che ci si aspetta. La classificazione CEAP è una delle cose più stupide della storia della medicina. E’ l’antitesi della classificazione. Si sono prese tutte le diverse patologie venose esistenti, e si sono considerate come se fossero un’unica cosa, una diversa manifestazione della stessa patologia. Per la classificazione CEAP la differenza tra le teleangectasie sulle gambe di una bella donna (quelle che vengono volgarmente chiamate “capillari”. Ma i capillari sono invisibili ad occhio nudo. Occorre il biomicroscopio, ovvero, appunto, “capillaroscopio”), ed una trombosi venosa estesa e potenzialmente letale sta nei pedici da aggiungere alle lettere della classificazione. E’ assimilabile in qualche modo al “grado”, alla gravità della patologia. Non tiene conto del fatto che sono patologie diverse, con cause diverse, conseguenze diverse, modi diversi di rilevarle, e le cui rispettive terapie sono lontane anni luce. Il concetto di “insufficienza venosa” non è contemplato nella classificazione CEAP; perchè in essa tutto è insufficienza venosa. Anche le teleangectasie (i “capillari”).

E ciò non deve sorprendere. La classificazione CEAP non solo ha riunito le persone che dovevano occuparsene in un posto come Maui , ma gran parte di queste stesse persone non avevano mai fatto differenza, in vita loro, tra “varici"”ed “insufficienza venosa”. Loro chiamavano già da prima “insufficienza venosa” anche le telangectasie (sempre i “capillari”).

Invece, in questo caso la chiarezza al riguardo è fondamentale. La stessa chiarezza che viene adottata sempre in medicina, ma in altre situazioni.

Il mio vocabolario della lingua italiana, sempre un vecchio Zingarelli edizione 2001, dà la seguente definizione di insufficienza in medicina:

Riduzione dell'attività di un organo al di sotto dei livelli minimi richiesti per mantenere l'equilibrio dell'organismo

Quindi, in medicina, quando si parla di insufficienza di un organo, si fa riferimento all’insufficienza di una funzione relativamente alle necessità dell’organismo. Questo ha due implicazioni:

1) ci deve essere un parametro che indica la compromissione. Questo spesso può essere misurato

2) deve esserci un’evidenza del fatto che la compromissione è di tale entità da rendere la funzione non più sufficiente a mantenere l’equilibrio dell’organismo.

Per l’implicazione 2), non esistono parametri misurabili, e questo per due motivi. Il primo è che le necessità del singolo organismo riguardo alla funzione non possono essere quantificate. Il secondo è che nello stesso organismo, le necessità possono variare grandemente a secondo delle condizioni. D’altra parte, se l’organismo non riesce a mantenere il suo equilibrio, questo è evidente: compare la malattia. Quindi, l’evidenza dell’insufficienza è un’evidenza clinica.

E poichè spesso lo stato di insufficienza è relativo alle condizioni, sono allora state sviluppate delle classificazioni che consentono di quantificarne grossolanamente l’entità sulla base delle manifestazioni cliniche in diverse condizioni.

Ad esempio, la funzione del cuore è quella di pompare (è così davvero, Lettore, con buona pace di Marinelli che invece sostiene che “il cuore non è una pompa”, ed il sangue va avanti per i fatti suoi). Se la sua capacità di pompare è insufficiente ai bisogni dell’organismo, si parla di insufficienza cardiaca. Magari la funzione di pompa è sufficiente se uno deve camminare; ma se è richiesto uno sforzo maggiore (ad esempio, salire le scale) la funzione cardiaca diviene insufficiente. La New York Heart Association ha così sviluppato una classificazione dell’insufficienza cardiaca divisa in classi (dette appunto classi NYHA) che consente di quantificare grossolanamente il deficit. E di verificare se uno migliora o peggiora con le cure.

Lo stesso concetto vale per il rene, il fegato, le arterie… da cui insufficienza renale, epatica, arteriosa… etc.

Lo stesso deve avvenire per il sistema venoso. Allora la prima cosa da fare è stabilire qual è la funzione delle vene. La seconda, individuare un parametro che ne indichi la compromissione. La terza è stabilire cosa cambia nell’organismo quando la funzione diviene insufficiente.

Abbastanza stranamente, i concetti relativi alle tre cose da fare sono noti da tempo. La funzione delle vene è quella di riportare il sangue al cuore dopo che questo è passato attraverso i capillari. Il sangue, come tutti i fluidi, si muove per gradienti di pressione; quindi se la pressione all’interno delle vene diviene più alta che nei capillari, questo non potrà più muoversi. Il parametro che indica la compromissione della funzione venosa è allora la pressione venosa. Se la pressione venosa diviene troppo elevata, non solo il sangue non potrà ritornare dai capillari, ma il liquido filtrato dai capillari non potrà venire riassorbito, e con esso altre sostanze. Si veriificherà quello che si chiama “edema”, e le altre sostanze finite nel tessuto sottocutaneo resteranno lì. Queste sono le manifestazioni di insufficienza venosa. Nelle gambe, vederle è facile. Non ci sono strumenti per verificarle, basta semplicemente guardare (per chi sa quello che sta facendo, ovviamente). Nella scatola cranica, non possiamo. Ma se l’aumento di pressione venosa ha le stesse implicazioni che ha per le gambe, ci aspettiamo che nel cervello succeda la stessa cosa che succede alle gambe. “The Big Idea”, appunto.

IL MODELLO TEORICO

Fin qui, tutto fila liscio, tutto è molto scientifico. Possiamo togliere di mezzo quella inutile idiozia rappresentata dalla classificazione CEAP, e fare riferimento ad un modello teorico vero, scientifico. Possiamo cioè descrivere con un modello, in parte addirittura matematico, cosa accade quando vi è una causa che fa aumentare la pressione venosa. La base per questo modello esiste da più di un secolo, ed è nota come “equilibrio di Starling”; essenzialmente, consiste nella caduta della pressione idraulica lungo i capillari, mentre resta quasi costante la pressione osmotica. La prima tende a far fuoriuscire il liquido dai capillari (quelli veri, non le teleangectasie), la seconda a farlo rientrare dentro. All’inizio del capillare prevale la prima, ed alla fine la seconda. Quindi, il liquido fuoriesce (“filtra”) all’inizio del capillare e rientra (“viene riassorbito”) alla fine. Il modello di Starling descrive questo processo in termini quantitativi, fornendo i valori della pressione. I motivi della caduta di pressione lungo il capillare possono anch’essi essere descritti in termini matematici; non è una cosa complicata, ma non è il caso di farlo qui. Recentemente sono state avanzate delle critiche al modello originario, ma la sostanza non è cambiata.

Se aumenta la pressione venosa, questo aumento si riflette per via retrograda fino alla fine del capillare, per cui alla fine di esso la caduta di pressione risulterà “insufficiente” per riassorbire il liquido filtrato; ecco spiegato il motivo per cui “insufficienza venosa” significa “aumento di pressione venosa”. Ed ecco anche perché “varici” ed “insufficienza venosa” sono due concetti assolutamente diversi, due condizioni assolutamente distinte. Nelle varici (tranne che in casi o in condizioni particolari) spesso non si ha un aumento della pressione venosa trasmessa ai capillari. Ed anche per questo abbiamo, se non esattamente un modello matematico, un modello fisico supportato da dati numerici. Ed anche questo data diversi anni, anche se non un secolo. Venne sviluppato da Roald I. Bjordal all’inizio degli anni settanta. Se cerchi su Wikipedia notizie di Roald Bjordal, non ne troverai, Lettore. Troverai la biografia di Ilona Staller, o dettagliate informazioni sui Pokemon, ma non una parola su chi ha capito come funzionava l’emodinamica venosa; ed anche questo costituisce un segno dei tempi. Bjordal era un chirurgo pediatrico; è deceduto nel 2003. Voleva sapere come variassero le pressioni nei soggetti con malattie delle vene; e poiché non trovò risposte (magari aveva chiesto agli stessi che redassero venticinque anni dopo la classificazione CEAP) , decise di studiare da solo il problema. In seguito al suo lavoro, altri studiarono le variazioni della pressione in diverse malattie delle vene.

Furono questi studi a stabilire delle relazioni tra determinate malattie e l’insufficienza venosa; si classificarono le diverse malattie, si misurarono le pressioni, e si comprese cosa comportasse la malattia e come variasse la pressione. Da allora si seppe perché una determinata malattia dava insufficienza venosa ed un’altra no, perché in una condizione la pressione risultava aumentata in una situazione (ad esempio, soggetto in piedi), mentre in una condizione diversa la pressione risultava aumentata in altre condizioni (ad esempio, soggetto disteso). Poi arrivò la classificazione CEAP a rimescolare tutto, vanificando il lavoro di decenni.

Il professor Zamboni, dopo il riferimento contenuto in “The Big Idea”, sembra però tralasciare (per fortuna) la CEAP; dopo quella volta non ne parla più. E parla invece di “insufficienza venosa” intesa proprio come “incremento della pressione venosa”. Segue, insomma. la correttezza logica e linguistica contenuta nell’antico concetto.

Ci sarebbe però un problema. Tutti gli studi condotti tra l’aurora di Bjordal e l’oscurità della classificazione CEAP riguardano le gambe. I rapporti esistenti tra le singole malattie e le relative variazioni della pressione venosa si riferiscono alle vene degli arti inferiori. Siamo sicuri di poter applicare gli stessi principi al ritorno venoso dalla regione cervico-cefalica? Perché, vedi Lettore, la regione cervico cefalico ha una particolarità: quella di trovarsi gravitazionalmente spesso al di sopra, a volte allo stesso livello, quasi mai al di sotto della valvola tricuspide, che è quella che costituisce lo “zero” idrostatico. In altri termini, la pressione idrostatica a livello della valvola tricuspide è zero. Al di sotto di essa, e quindi anche alle gambe, è pari al peso della colonna d’acqua di lunghezza compresa tra il punto di misurazione e la valvola tricuspide; ma al di sopra di essa, e quindi nella regione cervicocefalica, è negativa. Anche in condizioni normali le pressioni sono diverse, ed il ritorno venoso non funziona allo stesso modo.

Il problema viene risolto, nella condizione che ci riguarda, dal prof. Zamboni nello studio del 2008. Nei soggetti portatori di anomalie venose viene misurata la pressione venose a monte dell’anomalia. E’ aumentata. Le anomalie venose si comportano per il cervello come le patologie trombotiche per le gambe: danno un’insufficienza venosa. Non vi è motivo di dubitare che il prof. Zamboni dica la verità, non vi è motivo di pensare che menta: le anomalie venose causano un aumento della pressione venosa, e sono in qualche modo più frequenti nella SM.

Problema risolto.

Ma ne sorge un altro.

Il passaggio dall’incremento della pressione venosa alle manifestazioni cliniche dell’insufficienza venosa, diverse dall’edema (cioè infiammazione, ulcere, etc,), non è automatico. E’ mediato da una serie di passaggi che coinvolgono leucociti, molecole di adesione, metalloproteine, etc., passaggi peraltro accennati in “The Big Idea” e ripresi in uno studio successivo. Qui il modello non solo non è affatto matematico (cosa di importanza irrilevante) ma è terribilmente fumoso ed intricato (cosa di importanza estremamente rilevante). Alcuni passaggi sono macchinosi, altri speculativi. Comporta la formulazione di ipotesi ad hoc. Insomma, è lungi dall’essere soddisfacente; e stiamo parlando sempre di gambe. Come si può trasferirlo al cervello, dove tra l’altro anche i capillari (sempre quelli veri) hanno caratteristiche diverse? Dove sono diversi i tessuti interstiziali? Dove esiste la Barriera EmatoEncefalica?

Dopo tutto, il cervello ha una serie di meccanismi che lo proteggono, ad esempio, contro gli aumenti della pressione arteriosa. Chi ci dice che meccanismi dalla funzione analoga non siano operanti contro l’insufficienza venosa?

Nessuno, Lettore; ma per risolvere quest’altro problema, possiamo sempre chiamare in aiuto il metodo scientifico

IL MODELLO SPERIMENTALE

Se dovessi aver dato un’occhiata a quanto riportato qui a proposito del metodo scientifico, forse ricorderai quanto affermavo a riguardo del modello sperimentale, e cioè che la sua validità viene verificata dalla possibilità di fare previsioni (dove, evidentemente, per “previsione” si intende la possibilità di riprodurre sul modello una risposta alle sollecitazioni analoga a quella del sistema che il modello intende riprodurre), e che per quel che riguarda i sistemi umani il modello è spesso animale. Nel caso specifico, ciò significherebbe che dovrebbe essere possibile riprodurre le lesioni istologiche corrispondenti alla sclerosi multipla su un modello animale di insufficienza venosa cronica cerebrospinale.

Molto più difficile sarebbe la creazione di un modello sul quale riprodurre gli effetti della terapia; ma ci si potrebbe chiedere: esistono dei meccanismi biologici in grado di eliminare gli effetti dell’aumento di pressione venosa?

Magari, forse, questo modello sarebbe già disponibile in natura. Come illustrato qualche riga più sopra, la pressione venosa, in assenza di altre condizioni che tendano a farla variare, è equivalente a quella idrostatica, prendendo la valvola tricuspide come riferimento. E quindi nel distretto cervicoencefalico sarebbe negativa, divenendo positiva ogni volta che ci mettiamo a testa in giù. Rimanendo a testa in giù, quindi, saremmo affetti da un’insufficienza venosa “funzionale” nella regione cervico-cefalica; nulla ci sarebbe di anomalo nel nostro sistema venoso, ma sommeremmo la pressione idrostatica ai fattori che determinano la pressione venosa. Ma di solito non stiamo a testa in giù.

Eppure, Lettore, c’è un mammifero che passa a testa in giù circa la metà della sua vita. Perché ai pipistrelli non viene la sclerosi multipla? Perché hanno dei meccanismi particolari che consentono loro di evitare comunque che la pressione si innalzi? Oppure semplicemente perché l’aumento di pressione non è la causa della SM?

Bè, avere la risposta a questa domanda non è così semplice. Bisognerebbe studiare e conoscere a fondo il sistema circolatorio dei pipistrelli. Una cosa tanto difficile quanto inusuale.

Però, Lettore, per quanto inusuale sia, c’è una persona che fa esattamente questo. Si chiama Christopher Quick, ed è professore associato presso la Texas A&M University. Ma questo, Lettore, per quanto inusuale sia, è il meno. Il più, la stranissima coincidenza, la faccenda più singolare, è il fatto che il professor Quick, prima di occuparsi di pipistrelli alla TAMU, si occupava di emodinamica umana presso il Center of Cerebrovascular Research dell’Università della California di San Francisco. E questa, come coincidenza, è davvero sorprendente: una persona che si occupava prima di emodinamica cerebrale umana, si occupa adesso dell’emodinamica dei pipistrelli. Tanto sorprendente che sembrerebbe quasi che io stia raccontando frottole. Ma puoi verificare Tu stesso, Lettore: se fai una ricerca sul Web, puoi facilmente trovare la conferma alle mie parole. Puoi forse addirittura trovare il suo libro in PDF “Integrated Arterial Hemodynamics”.

Un’associazione americana che si occupa della difesa dei pipistrelli vuole intraprendere azioni legali contro il prof. Quick perchè ritiene che le sue ricerche siano crudeli, ed io sono assolutamente d’accordo; ciò non toglie che le sperimentazioni siano comunque state condotte. Se si vuole davvero occuparsi di tale aspetto della biologa degli esseri viventi, e soprattutto di un risvolto di esso così importante per gli esseri umani, perché non coinvolgerlo? Fossi stato io, sarebbe stata una delle prime cose alle quali avrei pensato.

Ma queste sono elucubrazioni personali. Non è detto che le mie idee in proposito siano la maniera più corretta di procedere; anzi, sicuramente non lo sono affatto. Domandarsi perché altre persone non hanno fatto ciò che probabilmente avrei fatto io è stupido, se ciò che avrei fatto io è qualcosa di così particolare come coinvolgere un tizio che studia pipistrelli.

Quindi, la domanda da porsi probabilmente non è “perché non è stato interpellato Christopher Quick?”; la domanda è:

Ma perché mai non esiste un modello animale?

La realizzazione di un modello sperimentale animale per patologie umane è a volte estremamente difficoltosa e scarsamente attendibile. Si pensi alle patologie virali per esempio: è difficile riprodurre su un animale da laboratorio la malattia usando un virus diverso; perché probabilmente l’animale non potrà essere infettato dallo stesso virus che infetta l’uomo. Magari per il secondo è patogeno, e per il primo no; è una situazione frequente.

Ma qui la situazione è diversa. Parliamo di alterazioni che causano un ostacolo al deflusso, e conseguentemente un aumento di pressione nelle vene a monte; una cosa facilissima da riprodurre.

Personalmente, sono contro qualunque forma di maltrattamento degli animali, anche per ricerche “serie”. Penso che ogni specie vada rispettata per quella che è, e che all’interno della stessa specie vadano effettuati i sacrifici per progredire nella conoscenza. Che si sperimentino sul cane i trattamenti per i cani, sul gatto quelli per i gatti, sull’uomo quelle per gli uomini. Molte persone invece uccidono gli animali per il mero piacere di farlo; vanno a caccia, a pesca, spacciando tale piacere per la necessità di nutrirsi, necessità che potrebbero soddisfare con estrema facilità recandosi al negozio sotto casa, dove viene venduto ciò che altri avrebbero ucciso per loro. Ma così facendo mancherebbe il piacere di uccidere; come potrebbe la massa che attende a simili passatempi indignarsi per le vittime della sperimentazione? Sono consapevole che mi sarà praticamente impossibile fare proseliti rimanendo su una simile posizione.

Quindi ogni giorno nel mondo migliaia di animaletti vengono uccisi per eseguire test persino su prodotti cosmetici destinati solo a solleticare la vanità di giovani e meno giovani donne. Perché allora non fare lo stesso per una causa che sembrerebbe ben più nobile? Perché non legare una delle giugulari interne di qualche topino o di qualche coniglietto, e vedere cosa accade a distanza di sei mesi?

Vorrei sottolineare, Lettore, che questa era l’unica cosa ragionevole da fare prima di tutte. Questa non è un’estrosità o un pensiero bislacco come quello di coinvolgere il professor Quick. Questa è l’unica cosa che avrebbe fornito prove valida. L’unica che avrebbe consentito di rispondere con ragionevole certezza alla domanda: “ma sarà poi vero che l’insufficienza venosa cerebrospinale causa la sclerosi multipla?”

Eppure, non si è mai fatto. E se a te, Lettore, capiterà di parlare con chi si occupa di questa faccenda e proverai a fargli questa domanda (io l’ho fatto), è probabile che ti senta rispondere, con aria quasi indignata: “Ma è già stato fatto! Tanti anni fa!”.

E’ una menzogna. Una sporca menzogna, sporca in quanto si cerca di spacciare per sperimentazione nel campo dell’Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale dei lavori che sono tutt’altro.

Nel 1937, Tracy Putnam, rifacendosi alle osservazioni di Rindtfleisch, cercò un nesso qualunque che potesse unire, in qualche modo, il sistema venoso cerebrale alla sclerosi multipla, riuscendo a fabbricare da tessuti estratti da malati di SM, un modello tridimensionale che metteva in relazione spaziale le strutture vascolari con le placche. Successivamente studiò l’anatomia patologica microscopica in diverse patologie che davano lesioni focali disseminate. Alla fine effettuò una sperimentazione su cani iniettando diverse sostanze nel seno longitudinale e facendole progredire per via retrograda fino alle vene cerebrali.

I risultati furono diversi, dipendentemente dal tipo di sostanza utilizzata; alcune lesioni, negli animali vissuti, più a lungo, presentavano alcune caratteristiche comuni con le placche della SM. E le conclusioni cui giunse Putnam furono che l’ostruzione delle piccole vene rappresentava il momento antecedente alla formazione di una placca. Ma non ottenne mai né il quadro clinico, né quello istologico della malattia. Mai.

Né un tale modello è mai stato creato, per quanto fosse facilissimo. Mai

E l’ostruzione delle piccole vene è una condizione che, potenzialmente, si verifica in alcune patologie. Quelle in cui si ha un aumento della viscosità del sangue, ad esempio. O quelle in cui aumenta la coagulabilità, le cosiddette “condizioni trombofiliche”. O quelle in cui l’interno delle vene viene danneggiato in vario modo dallo stesso sistema immunitario, le cosiddette “malattie autoimmuni”

Ma analogamente a quanto avvenuto per le condizioni, diverse dalle patologie venose” nelle quali vi è un incremento della pressione venosa, anche in questi casi non si è provveduto a verificare quale sia la prevalenza della SM. Mai.

Così come Marian Simka ha totalmente abbracciato “the Big Idea” senza mai preoccuparsi o occuparsi della propria idea, quella relativa alla BEE. Mai.

EVIDENCE BASED MEDICINE: LA VERIFICA

Rifacendoci sempre alla sequenza descritta a proposito del metodo scientifico, dopo l’intuizione, il modello teorico e quello sperimentale viene la verifica dei risultati. Ma qui il modello teorico è carente e quello sperimentale manca. Quindi, cosa stiamo verificando? Qui non stiamo applicando un metodo, stiamo parlando della verifica di un’idea, “The Big Idea”, con i metodi dell’EBM. E basta.

Dal punto di vista strettamente pratico, non ci sarebbe nulla di male nel verificare direttamente un’idea, anzi. Certo, la mancanza della teoria e della sperimentazione si concretizzerebbe nella mancanza di conoscenza. Un fallimento scientifico, ma un grande risultato pratico; e la medicina predilige, soprattutto da qualche tempo a questa parte, i risultati pratici.

E d’altra parte, è comprensibile. Alla gente interessa essere curata, non importa un fico secco del come o del perché. Il come ed il perché interessa gli scienziati; bene, che si gingillino come preferiscono, purchè questo non sia di ostacolo agli interessi della gente.

Ma “the Big Idea” è stata davvero verificata con i metodi dell’EBM? Forse a volte sì, altre sicuramente no. Perché, Lettore, la verifica prevedrebbe sperimentazioni in cieco, per le motivazioni esposte a proposito del metodo scientifico. Ed infatti, nel lavoro del 2007, non in cieco, la rilevazione delle anomali venose sia nei malati sia nei sani ha fornito risultati profondamente diversi da quelli ottenuti da altri ricercatori.

In questo momento, non ho modo di sapere come questa storia finirà, quali saranno i risultati definitivi dello studio CoSMo. Se, nonostante la procedura seguita, risulterà che l’Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale è la causa della SM, che può essere curata con l’angioplastica, e questo brillante risultato sarà stato conseguito senza uccidere animaletti innocenti, io non potrò che essere contento. Per i malati, per i loro familiari e soprattutto per gli animaletti (che in questa storia non c’entrerebbero per niente).

Ma comunque questa storia finirà, puoi sinceramente dire, Lettore, che la cosa sia stata affrontata e condotta seguendo una metodologia corretta?