mercoledì 9 febbraio 2022

GUIDA ALLE FALSE GIBSON CINESI 2



Devo subito dirTi la verità, Lettore: il titolo del post é fuorviante. Nessuna "guida" é contenuta in esso; il titolo mira solo a stabilire una continuità, almeno ideale, con una serie di tre post che scrissi quindici anni orsono.

Ed era solo l'ultimo dei tre post di quindici anni fa ad evidenziare le differenze estetiche intercorrenti tra le Gibson Les Paul autentiche e le copie cinesi, prendendo a modello la Les Paul Supreme, chitarra non più prodotta, ma che a breve dovrebbe tornare in catalogo, in qualche forma.

Da allora, ne é passata di acqua sotto i ponti. E quest'acqua ha trasportato con sé anche molte valutazioni da parte di liutai, supportate quindi da conoscenze specifiche ben maggiori delle mie, nonché falsi moralismi.

Le valuazioni dei liutai, nonostante la provenienza da parte professionisti indubbiamente competenti, lasciano il tempo che trovano; e la motivazione di ciò può essere discussa in poche righe.

Le copie cinesi sono fatte male, dicono i liutai. Dal punto di vista liuteristico sarà anche vero, dal punto di vista di chi le suona probabilmente no, o almeno non sempre; altrimenti non se ne venderebbero più.
Si venderebbero solo Firefly, Harley Benton ed Epiphone; se invece le copie (repliche, falsi, tarocchi. chiamatele come volete) continuano ad essere prodotte é perché qualcuno le compra.

E' la legge della domanda e dell'offerta, che in fondo é una banalità. Non c'é bisogno di immergersi nei testi di economia per verificarla, basta aprire un qualunque mercatino musicale: se qualcuno mette in vendita qualcosa e nessuno la compra, il prezzo viene ribassato. Se qualcuno mette in vendita qualcosa e la vende in minuti, chi mette in vendita successivamente un prodotto analogo chiede di più.

E', in pratica, il raggiungimento di un equilibrio naturale, nel quale entra evidentemente anche il reddito del consumatore; e la faccenda ha sempre funzionato così. E' stato il consumismo ad alterare l'equilibrio, introducendo elementi nuovi per pilotare il mercato.

Qui passiamo dalle valutazioni liuteristiche ai falsi moralismi, che richiedono un ragionamento un po' più articolato.

Se infatti la "società dei consumi" si era limitata a trasformare i beni duraturi in beni di consumo, favorendo il rinnovamento di beni che prima venivano acquistati "per la vita", e riparati fin quando non si poteva fare a meno di cambiarli, il consumismo ha cominciato ad ingenerare falsi bisogni per indurre il consumatore ad acquistare anche ciò di cui non avrebbe avuto la necessità, indebitandosi per farlo.

Le pressioni sociali (espletate attraverso diversi canali, non solo la pubblicità) hanno condotto a privilegiare l'apparenza rispetto alla sostanza; ci sono persone che comprano, ad esempio un oggetto tecnologico, e dopo un certo lasso di tempo lo cambiano senza mai aver avuto idea di tutte le caratteristiche e le capacità dell'oggetto. Non ne hanno mai sfruttato nemmeno un decimo delle potenzialità; perché spendere tanti soldi?

Alcuni oggetti, riguardo ai quali si bada alla sostanza, hanno un mercato assolutamente refrattario ai falsi. Esiste ad esempio un mercato di false auto sportive, che in alcuni Paesi possono pure venire (re)immatricolate, ma il mercato non decolla.
Vi sono dei kit per trasformare vecchie Toyota MR2 in Lamborghini, con risultati esteticamente stupefacenti (la Murciélago bianca é quella "autentica")


ma il vero appassionato vuole guidare una vera Lamborghini, e se non può permettersela preferisce continuare a guidare la sua vecchia MR2 che certamente gli garantirà un piacere di guida maggiore da originale, e non se appesantita da finte sovrastrutture che la avvicinano alla Lamborghini nella forma ma la allontanano da essa nella sostanza. Un costruttore di supercar realizza autovetture dalle prestazioni e dalla qualità tanto elevate, da non poter mai essere surrogate da un marchio su un cofano, scopiazzato da un cinese qualunque; e sono prestazioni e qualità che interessano l'appassionato, non lo scimmiottamento dell'estetica.

Un borsa da donna con una serie di LV dorate su un fondo color melanzana, invece, conserva inalterata la sua funzione a prescindere da chi l'abbia realizzata.
Se una vera ed una falsa Lamborghini si confrontano su strada o su pista, non c'é storia; se due donne con la borsa marchiata LV, di cui una é vera ed una e falsa, vanno in giro, di solito vince la più carina, non chi ha la borsa autentica.

E se é la più carina ad avere la copia, vince su tutti i fronti perché quando la moda consumistica imporrà ad ambedue di relegare la borsa il un armadio perché dèmodè, chi ha la copia avrà gettato via una frazione del denaro.

Per cui, molte persone (non necessariamente donne carine, anche uomini brutti) hanno pensato che rivolgersi al mercato delle copie per avere oggetti con le medesime funzionalità e con un aspetto che in qualche modo rispondesse alle pressioni sociali esercitate dal consumismo, risparmiando diversi soldi frutto di duro lavoro, fosse la migliore soluzione per utilizzare un oggetto, fare salve le apparenze, e non rovinarsi.
E' un effetto collaterale inevitabile del consumismo. Il dialetto siciliano, che é impareggiabile nel sintetizzare condizioni frequenti ma complesse in una sola frase, dice "Cu' mancia fa muddìchi", e cioè "chi mangia lascia briciole": non puoi pretendere di riempirti la pancia senza sporcare un po'. Ed i falsi sono "i muddìchi" del consumismo.

Chi "fa muddìchi" trova poi un metodo per asportare le briciole, raccoglierle e buttarle via, come ad esempio quello che si chiama "raccoglibriciole da tavola": Il raccoglibriciole del consumismo é il falso moralismo.
Così, viene strombazzato a destra e a manca, Lettore, come sia immorale comprare le copie, sottacendo l'immoralità insita nel costruire oggetti "autentici" delocalizzando, pagando i lavoratori quattro soldi, facendosi pagare il marchio, mettendo in atto l'obsolescenza programmata, istigando a comprare con tecniche di persuasione occulte e chiedendo cifre spropositate all'acquirente finale, che probabilmente sentirà il (falso) bisogno di comperare la versione più aggiornata di quell'oggetto del quale non ha ancora finito di pagare le rate alla finanziaria.
Arricchirsi alle spalle di poveri disgraziati.

E qualcuno, non si capisce se per convenienza o incapacità sta al gioco: é vero, é immorale. Chi ha iniziato tutto ciò pensava che i cinesi non fossero persone come tutte le altre, ma fossero dei poveri ingenui; i furbi erano loro.
Hanno spiegato ai cinesi cosa dovevano fare e come, dando loro due soldi mentre, a braccia incrociate, stavano a guardarli lavorare duramente. Ma una volta che i cinesi hanno imparato cosa dovevano fare e come, l'hanno fatto per loro stessi, chiedendo quattro soldi all'utente finale, anziché i due che gli dava il committente. O i furbi pensavano che nella Cina dominata dal "grande timoniere", dove chi era ricco poteva permettersi al più una bicicletta, sapessero di orologi Rolex, borse Louis Vuitton e chitarre Gibson?

Scoperto che i cinesi non erano poi così ingenui, tutto ciò che hanno saputo inventare per tirarsi fuori d'impaccio é stato il moralismo.
Moralismo che non rende migliore chi ha inventato questo meccanismo; lo rende solo più ipocrita. E fin da piccolo mi é stato insegnato che l'ipocrisia é una brutta cosa.

Quindi, il falso moralismo, lasciando intatta l'intera costruzione ed aggiungendo l'ipocrisia, non migliora la situazione nel suo complesso, anzi la peggiora.

L'unico modo di migliorare l'intera faccenda sarebbe stato quello di svincolare la società dalla necessità di apparire, ritornando a privilegiare la sostanza. Ma chi muove i suoi interessi su questo piano economico si é ben guardato dal farlo; quindi il mercato delle copie é fiorente, consentendo ancora alle vittime del mercato globale di apparire senza essere, e senza dover togliere il pane di bocca alla famiglia.

Ma torniamo al caso specifico delle chitarre. Se guardi articoli, blog, canali YouTube, etc. ti accorgerai di come chi vuole "svelare" ad altri il "segreto" per distinguere le copie da chitarre autentiche, si basa sui particolari estetici.
Non così é nel caso, summenzionato, delle automobili; questo é l'avvertimento, diretto all'eventuale acquirente, il venditore di questa copia di "Ferrari Enzo"


This is a replica kit car, NOT a $1,000,000 car. It is NOT perfect, it is good for what it is, but please know what you are getting yourself into by purchasing this car. If you have never owned a kit car, come see the car BEFORE bidding please.

L'acquirente deve essere avvertito che la prestazione che ricaverà dall'oggetto non é neanche lontanamente paragonabile a quella dell'originale; così non fosse la restituzione, con la relativa richiesta di rimborso, sarebbe praticamente immediata.

Qualche liutaio entra nei dettagli costruttivi, sempre rilevabili ad un'ispezione più o meno approfondita, ma pur sempre visiva. Nessuno dice mai: "Ecco, io non guardo la chitarra, ma distinguo l'originale dalla copia suonandola o sentendola suonare. La copia si distingue dall'originale per le sue diverse prestazioni".

Anche io, nel post di quindici anni fa, mi basai sostanzialmente sui medesimi principi: dettagli di tipo estetico.

Ma quindici anni non sono passati invano; posto che, una volta che si ha il marchio sulla paletta, l'apparenza é stata salvata, é giunto il momento di occuparsi della sostanza. Quanto, nella sostanza, può essere resa paragonabile una copia all'originale? Può una differenza nell'utilizzo dello strumento essere così determinante da causare la restituzione della copia, chiedendo un rimborso?

E fatta salva l'apparenza, soddisfatta tale esigenza sociale, restano, al netto del valore commerciale in caso di rivendita, tre parametri che esprimono la sostanza: estetica (quella importante, data dall'impatto visivo dello strumento), suono e suonabilità. E tutte tre sono suscettibili, in maggiore o minor misura, di miglioramenti lavorando sullo strumento.

Però, mentre la suonabilità non può venire comunicata attraverso i mass media se non come parere, estetica e suono possono invece venire mostrati.

Ed é questo che ho intenzione di fare qui, Lettore.

Così, ti voglio presentare queste due chitarrine.






Una é autentica, l'altra é una copia.

Ma diversamente da quanto accadde più di quindici anni fa, non mi soffermerò sui particolari che consentano di stabilire, visivamente, quale sia la chitarra autentica, e quale la copia




chi ha un minimo di dimestichezza con la produzione Gibson non avrà alcuna difficoltà nell'individuare immediatamente la copia.




Ma anche chi non conosce in maniera approfondita la produzione Gibson impiegherà al più qualche minuto per catalogare le due chitarre






Non essendo questo lo scopo, chiameremo genericamente le due come "Chitarrina Rossa"




e "Chitarrina Azzurra"




Forse Chitarrina Rossa é più una calda tonalità di marrone che un rosso




e Chitarrina Azzurra é più un blu violetto profondo che un azzurro




così magari sarebbe stato più corretto chiamerle "Chitarrina Tigrata" e "Chitarrina Fiammata"; ma guardate in pieno sole, possono anche vedersi come rossa e azzurra.




Non so come le trovi tu, Lettore, ma per me posseggono ambedue un'estetica accattivante; e tale impressione é stata condivisa da molti di coloro che le hanno viste "dal vivo", e da taluni addirittura manifestata spontaneamente, senza alcuna sollecitazione.

E questo é per ciò che riguarda l'estetica; veniamo al suono

Ora, Lettore, non sapendo quale Tu trovi più gradevole, ma vorrei proporTi un gioco. Il gioco consisterebbe nell'accoppiare il suono all'estetica.

Vi sono tre file audio, di cui uno riproduce l'uscita, in sequenza A-B, dei pickup al manico




uno dei pickup al ponte




e uno di ambedue i pickup, con i selettori in posizione centrale




Il gioco consiste allora nell'associare il suono A o B, a Chitarrina Rossa o a Chitarrina Azzurra. Non é detto che A o B corrispondano sempre alla stessa chitarrina; é possibile che il campione A del pickup del manico corrisponda ad una ed il campione A del ponte all'altra. Quindi gli accoppiamenti sarebbero 3+3: uno per il pickup al manico, uno per quello al ponte ed uno per ambedue i pickup (posizione centrale del selettore).

I file sono registrati digitalizzando il segnale "dry" in uscita dalle chitarre, senza nulla interposto, con un convertitore A/D 24 bit. Il segnale può pertanto essere paragonato direttamente, qualunque sia il mezzo con il quale viene riprodotto; l'audio é in formato PCM a 44100Hz stereo 1411kbps. I due canali riproducono ovviamente lo stesso segnale

Scusandomi per la qualità dell'esecuzione, resa ancora peggiore dalla totale assenza di qualunque effeto ambientale, naturale o artificiale, sottolineo che non si vince nulla; é un gioco fine a sé stesso, non una gara; se poi Lettore, riterrai di voler scrivere sotto quali siano, secondo Te, gli accoppiamenti, il Tuo commento sarà, come sempre, benvenuto.


martedì 8 febbraio 2022

IL MOSTRO DI FIRENZE, OVVERO LE OPINIONI, PARMENIDE, CARTESIO E LA RICERCA DELLA VERITÀ: Addendum



One coincidence is just a coincidence, two coincidences are a clue, three coincidences are a proof

Anonymous




SALVATORE VINCI


Spesso, Lettore, accade che prima di pubblicare un post sul blog, chieda a qualche familiare di leggerlo; magari i contenuti risultano chiari a me, che l’ho scritto, ma la forma in cui sono espressi può rendere i concetti oscuri per chi legge per la prima volta. O vi possono essere, semplicemente, delle espressioni che suonano male, oppure errate, delle quali non mi accorgo.

Chi, stavolta,  ha letto in anteprima quelli relativi al "Mostro di Firenze", ha poi approfondito autonomamente alcuni aspetti della storia. E, forse anche a causa di tre video recentemente pubblicati su un canale YouTube dedicato, che poi è quello sul quale sono presenti i video di colui che ho denominato Davide Rossi, è rimasto particolarmente colpito dalla figura di Salvatore Vinci; soprattutto per il fatto che non sembrasse si fossero verificati eventi che l’abbiano inequivocabilmente scagionato, come per gli altri sardi o per Spalletti (cioè, omicidi durante un periodo di detenzione o di viaggi all’estero). E nonostante ciò, o forse proprio per questo, è stato uno dei pochi, tra coloro coinvolti in questa storia, a non fare una brutta fine.

Dopo aver appreso tutte le verità, mostrologicamente parlando, al riguardo, mi ha chiesto quale fosse la mia opinione in proposito; ed io, dopo averla esternata, ho aggiunto parte di essa in coda alla serie dei post. Senza che ciò voglia in qualche modo rappresentare l’intenzione di continuare sull’argomento “Mostro di Firenze”.

Chiariamo subito un concetto riguardo all’equazione Salvatore Vinci = Mostro di Firenze; anzi, facciamolo chiarire ad un ex carabiniere intervistato da Davide Rossi ed a Davide Rossi stesso:

Dall’82 in poi è stato perquisito sette volte. Per lunghi periodi era piantonato sotto casa. Lui lo sapeva, e si divertiva anche un po’… per strada, col motorino, provava anche, per divertimento, a seminarci. Era un tipo scaltro. Fu perquisito nell’83 dopo il delitto, nell’84 dopo il delitto, nell’85 era pedinato e fu poi perquisito. Quindi dobbiamo scartarlo; anche se poi cercarono di incriminarlo per quella storia della moglie. Poi adducendo la questione che, per una questione di turni di qualche ora, il pedinamento del Vinci la domenica del delitto degli Scopeti era stato sospeso, fu valutato anche di incriminarlo come “mostro”. Ma, sembra che il delitto risalga addirittura al giorno prima; e il giorno prima il Vinci era a casa con i suoi angeli custodi. E poi, un tizio scaltro come il Vinci, che sa di essere pedinato, si prende la briga di fa’ un delitto del genere? Come faceva a sapere che per poche ore non c’eravamo? E come faceva a sapere che avrebbe avuto il tempo di andare e tornare? Non è possibile, punto e basta.

Quindi, la questione del Vinci, si risolve… Salvatore… si risolve in maniera estremamente semplice. Perché dal momento che Salvatore Vinci, oltre che perquisito, è seguito periodicamente, era casualmente seguito fino al delitto degli Scopeti. Quando un carabiniere ti dice: “noi ci assentiamo due ore” questo come faceva a usci’ di casa… prendendosi un rischio mostruoso, perché poi non sapeva quando si sarebbero ripresentati! Questo esce di casa… chiaramente non poteva ave’ fatto sopralluoghi né niente… a colpo sicuro prende la macchina e va a San Casciano, a caso… casualmente ti becca la coppia, che se ne trovava assai poca in quel periodo, per non dire nessuna… compie i delitti… oltre questo si era preparato, a suo tempo, la lettera famosa della Della Monica, si piglia l’ulteriore rischio di anda’ fino a San Piero a Sieve, spedire la le…e tornare a casa. Non sapendo, se nel frattempo, avevano ripreso, i pedinamenti! Quindi… Salvatore Vinci… basta dire questo, per scagionarlo!


Ciò detto (da Davide Rossi), da un certo punto di vista, il personaggio di Salvatore Vinci in questa vicenda, non mi appare poi così diverso da quello di Pietro Pacciani.





Come Pacciani, entra nelle indagini essenzialmente sulla base di una segnalazione anonima (la lettera per Pacciani, il ritaglio di giornale per Vinci)

Come per Pacciani, la collocazione sul luogo del delitto come killer avviene sulla base di testimoni di dubbia attendibilità (il Lotti per Pacciani, il Mele per Vinci)

Come per Pacciani, le "testimonianze" si riducono a possibili "avvistamenti" nei pressi delle zone del crimine in orari che avrebbero una certa attinenza con i crimini (Pacciani in automobile o agli Scopeti, la maglietta a strisce di Vinci per Giogoli o l'uomo per strada per Baccaiano)

Come per Pacciani, vi sono testimonianze indirette di possesso ed uso di pistola, senza che questa sia mai stata trovata.

Come il Pacciani, l'unico indizio che forse lo lega all'arma del delitto (il proiettile per Pacciani, lo straccio per il Vinci) é labile e sua reale appartenenza al sospettato non é provata.

Come per Pacciani, la sorveglianza attiva (intercettazioni, pedinamenti) non ha condotto a nessun risultato concreto.

Come per Pacciani, ad un certo punto viene teorizzata un'azione omicidiaria coadiuvata da persone che hanno stretti contatti relazionali (i compagni di merende per Pacciani, fratello o figlio per il Vinci)





Come Pacciani, viene considerato un "mostro" per i suoi trascorsi omicidiari o presunti tali (Pacciani per il Bonini, Vinci per la Steri)

Come Pacciani, viene considerato un "mostro" anche per la depravazione sessuale (il Pacciani andava con le figlie, Vinci con altri uomini, donne e uomini, etc.)

Come Pacciani, viene lasciato dalla moglie non appena questa può sottrarsi.

Come per Pacciani, l'ipersessualità (in qualunque senso sia diretta) di fatto non corrisponde all'iposessualità postulata dalla criminologia.

Come per Pacciani, molti innocentisti “noti” si sono mossi (Sgarbi per Pacciani, i giornalisti per Vinci)

Come per Pacciani, un livello intellettuale che lo porta a superare i limiti impostigli da un ambiente retrogrado e culturalmente povero, gli consente una, seppur embrionale, espressione artistica (Vinci suonava la fisarmonica, Pacciani disegnava).

Come per Pacciani, il confronto diretto dà l'impressione di trovarsi di fronte ad una persona, anche se non di cultura, furba, intelligente ed acuta.





Come per Pacciani, le sue abitudini sessuali lo rendono certamente un depravato, ma non altrettanto certamente il “Mostro di Firenze” Allora, Se Pacciani non é mostro, perché mai dovrebbe esserlo Vinci?

Che poi furbizia, intelligenza ed acuzie possano essere state dirette in direzioni diverse è qualcosa che probabilmente discende da differenze caratteriali, e dalla frequentazione di ambienti differenti; cosa che fa sì che anche gli appoggi ricevuti dai due siano diversi. E Salvatore Vinci è senza dubbio un personaggio molto più enigmatico di Pietro Pacciani

Pacciani puntava sull’istrionismo. Cercava di dare di sé l’immagine della povera vittima (“l’agnelluccio al quale state tagliando il colluccio”); e, considerati i suoi trascorsi, che rendevano comunque difficile essere compassionevole verso di lui, un risultato in tal senso lo ottenne. Anche se, bisogna dire, affiancato da legali altrettanto abili

Salvatore Vinci, invece, in qualche modo si muoveva in modo inapparente, sotterraneo. La sua astuzia era certamente più raffinata, ed era palese quando si divertiva a cercare di seminare i suoi pedinatori, ben sapendo che nulla poteva essergli imputato per tale azione. Dispettoso per il piacere di esserlo.

C’era però dell’altro; e questo altro lo differenzia ancor di più da Pacciani. E’ improbabile che, se avesse davvero ucciso la povera Barbarina Steri, Rotella non sarebbe riuscito ad incastrarlo. Una faccenda è scoprire chi sia l’assassino; un’altra è averlo in pugno e non riuscire a trovare nulla. Però… se lui fosse stato colpevole, non avrebbe potuto farla franca senza l’aiuto di qualcuno. Mi spiego meglio. Una delle argomentazioni che venne (e viene ancora oggi) portata contro di lui riguardo alla morte di Barbarina, è il fatto che la poverina non poteva essersi suicidata utilizzando una bombola di gas ormai esaurita; e la necessità che ella si fosse recata dai vicini per riscaldare il latte del bambino comproverebbe come la bombola fosse esaurita.

E Salvatore Vinci stesso avrebbe detto al Mele di avere ucciso Barbarina.

Però, chi entrò con lui nella stanza ove giaceva, morta, la moglie, e cioè il fratello ed il padre di Barbarina, ed un vicino di casa, testimoniarono come nella stanza vi fosse “un forte ed insopportabile odore di gas”; quindi, se Salvatore Vinci ha ucciso Barbarina, e la bombola era vuota, sia il fratello (cosa che magari non stupisce), sia il padre (cosa che già stupisce un po’ di più) sia il vicino di casa avrebbero dichiarato il falso, affermando che dalla "bombola vuota" fosse uscito tanto gas da rendere "forte ed insopportabile" l'odore nell'ambiente. Lo avrebbero aiutato. Così come compiacenti sarebbero stati il dr Vacca, il dr Zuddas (ufficiale sanitario) ed il medico legale che eseguì l’autopsia dichiarando che sul cadavere di Barbarina non si rilevassero segni di violenza.

In realtà, considerato che:

1) Vi era un biglietto d’addio scritto di pugno da Barbarina

2) L’edificio, nonostante l’odore di gas, non esplose all’accensione della luce

vi sarebbe una spiegazione molto più semplice dell’accaduto. Anche qui, come in altri episodi che fanno parte della vicenda del Mostro di Firenze.

Quando la bombola è in esaurimento e la pressione all’interno scende al di sotto di quella dell’erogatore, non è più garantito il funzionamento dei fornelli ad essa collegati, ma la bombola continua ad erogare gas, sebbene a pressione inferiore. I moderni regolatori tagliano l’erogazione anche in queste condizioni, ma quelli di mezzo secolo fa non possedevano tale caratteristica.

E’ chiaro che la residua quantità di gas non è in grado di saturare un ambiente fino a provocare la morte per asfissia di chi lo occupa, specialmente se vi sono delle fessure che ne consentono la fuoriuscita dal vano; ma diversa è la condizione di chi inali direttamente il gas, respirando dal tubo collegato alla bombola. Inalando solo GPL, bastano un paio di respiri per morire; pertanto, se la bombola è ancora in grado di erogare 2-3 litri di gas, una donna può suicidarsi con due sole inspirazioni. D’altra parte, tale quantità di gas, dispersa nell’ambiente, è più che sufficiente per avvertirne l’odore, ma non perché venga innescata un’esplosione all’accensione della luce.

Barbarina aveva il tubo di gomma vicino alla bocca; ha probabilmente inspirato il gas direttamente da esso, e ciò ne ha causato la morte. E’ certamente possibile uccidere una persona costringendola ad inspirare il gas, ma occorre sopraffarla, e ciò lascerebbe dei segni inequivocabili sia sul corpo sia sul tubo del gas (ad es. segni di morsicatura); occorrerebbe non solo tenere forzatamente il tubo dentro la bocca della vittima, ma tenerle chiuse anche le narici, con le dita, fin quando lo stimolo indotto dall’elevato livello di anidride carbonica nel sangue (tecnicamente si chiama “ipercapnia”) non costringa la vittima ad inspirare. E’ impossibile che ciò non lasci segni evidenti sul viso; ed il rapporto giudiziario a firma Delio Pisano recitava testualmente “A parere dello scrivente il cadavere non presentava segni di violenza visibili esteriormente”, né l’autopsia rivelerà alcuna lesione compatibile con tentativi di sopraffazione.

Posto che esistono modi diversi di provocare la morte di una persona, anche senza eseguire azioni materiali, è evidente che la povera Barbarina, nonostante avesse avuto la possibilità di andar via di casa, e nonostante il bambino rimanesse orfano, per qualche motivo ha ritenuto di dover comunque porre fine alla sua vita. Ma Salvatore Vinci, sebbene responsabile della sua morte, non può essere considerato “assassino”. Salvatore Vinci con Stefano Mele, ha in realtà millantato l’omicidio; cosa che peraltro, considerato l’individuo, non sorprende. Certamente, sarà stato un grande affabulatore, e, nell’esserlo, chissà cosa e come avrà millantato.

Sta di fatto che sebbene egli, nell’idea di molti, sarebbe stato in grado di prendersi gioco di coloro che gli hanno dato la caccia per anni, di seminare in senso di spregio i suoi pedinatori, subito dopo il processo per la vicenda di Barbarina, ha ritenuto di dover trasferirsi all’estero. E nonostante sia stato assolto con formula piena.

E ciò anche se, una volta assolto dall’accusa di omicidio della prima moglie ed il non luogo a procedere per gli omicidi del “Mostro”, si sia manifestato un impegno generale a suo sostegno.

La notizia della sua assoluzione del 1988, infatti, venne riportata da diversi giornali, ma non semplici trafiletti; si parla di articoli a quattro colonne. Uno di essi fu firmato da Ottavio Olita, lucano trapiantato in Sardegna, giornalista RAI e scrittore. Senza dubbio, non un trattamento che viene riservato a qualunque emigrato sardo che viene assolto per un omicidio. Considera, Lettore, che qui non si tratta di un processo che ha avuto chissà quale risonanza mediatica. Non si sta parlando del delitto di Cogne.

In seguito al “non luogo a procedere” per la vicenda “Mostro di Firenze” si mobilitò addirittura RAI2, che gli dedicò un’intera puntata, praticamente celebrativa, di “Detto tra noi”, la serie che dall’anno successivo sarebbe divenuta “La Vita in Diretta”. E proprio da questa trasmissione televisiva, Lettore, giungono, a mio parere, un paio di informazioni interessanti su Salvatore Vinci.

La prima informazione riguarda il luogo in cui si trovi Salvatore Vinci, posto che sia ancora vivo. Vitalia Melis riferì in un’occasione come egli fosse deceduto in Spagna (mi pare a Barcellona – cito a memoria) per una neoplasia epatica, informazione che avrebbe ricevuto dalla seconda moglie. Il giornalista Paolo Cochi avrebbe invece appurato come il Vinci fosse vivo, e residente a Saragozza. L’investigatore (ex carabiniere) Davide Cannella, non sarebbe tuttavia stato in grado di trovare tracce del Vinci a Saragozza; avrebbe avuto notizia di tre “Salvatore Vinci” nell’intera Spagna, di cui due incompatibili per età, ed uno, parrebbe, proveniente dal NordAfrica. Tuttavia avrebbe accertato come almeno una volta il Vinci avrebbe fatto rientro in Italia per un breve periodo, con un volo atterrato a Fiumicino e proveniente da Madrid.

Nella summenzionata trasmissione televisiva “Detto tra Noi” viene, ad un certo punto, chiesto all’avvocato Marongiu, uno degli avvocati difensori di Vinci, dove si trovi Salvatore Vinci ed egli, con atteggiamento reticente, lo colloca, genericamente, “in un paese oltreoceano, nelle Americhe”.

In uno dei video che cito all’inizio del post, e che avrebbero suscitato la curiosità del mio congiunto, viene intervistata l’avvocato Rita Dedola, che sembra fosse appena entrata a far parte dello studio Marongiu ai tempi del processo Vinci. Anche lei riferisce come Salvatore Vinci sia ritornato almeno una volta in Italia, ed in tale occasione si sia recato in studio, per far visita a coloro che lo avevano difeso, insieme alla sua compagna che l'avvocato Dedola ritiene “spagnola” riferendo che di nome facesse “Marisol”. Il nome “Marisol” ha in effetti un'origine catalana, ma é molto diffuso in America Latina; così, il nome della compagna di Francesco Vinci non può essere considerato indicativo della zona geografica in cui egli si fosse trasferito.

Ora, Lettore, così come vi sono voli diretti Saragozza-Fiumicino, vi sono diversi voli che dall’America Latina giungono in Italia via Madrid; ed in America Latina vi sono almeno cinque località denominate “Zaragoza”. Questa è un’informazione che ho trovato interessante. Perché, nonostante le analogie con il personaggio di Pacciani, è la fine che fa la differenza; e questa non è un’”opinione”.

Anzi, proprio questo è l’aspetto che più di ogni altra cosa differenzia Salvatore Vinci da Pietro Pacciani, che li pone agli antipodi: le modalità con le quali i due personaggi hanno lasciato la scena.




Pietro Pacciani é morto in attesa della revisione di un processo che lo aveva scagionato. Francesco Vinci, il fratello di Salvatore, é morto. Assassinato. Salvatore Vinci é stato salvato.

La seconda informazione riguarda un episodio che sempre l’avvocato Marongiu narra sul finire della puntata. Egli riporta come, durante un’arringa condotta in un “tribunale del Nord Italia” per reati di sequestro di persona, fosse costantemente rimasto sotto lo sguardo insistente di una donna, elegante ed attraente, presente nell’uditorio; e, ritenendo che tale interesse fosse suscitato, nella signora, dalla sua persona, si sentisse lusingato. Subito dopo il termine dell’udienza la signora lo avrebbe incrociato in uno dei corridoi del tribunale, fermandolo, e pregandolo di inviare i suoi saluti a “Salvatore Vinci”. Salvatore Vinci, una volta riferitogli l’accaduto, avrebbe semplicemente annuito senza mostrare stupore. Lo stupore, invece, avrebbe colto l’avvocato nel rendersi conto che una donna così di classe fosse tanto interessata al Vinci.

L’episodio è indubbiamente inusuale, ma l’interesse non sta qui. Sempre in uno tre video che hanno incuriosito il mio congiunto, l’avvocato Rita Dedola narra come un giorno, mentre era in studio ed in compagnia dell’avvocato, si fosse presentata alla porta una donna, elegante, affascinante e con un eloquio che denotava una certa cultura, la quale aveva chiesto notizie sull’andamento del processo, si era interessata alla sorte di “Salvatore”, ne aveva parlato come se avesse con il Vinci una notevole familiarità, e gli aveva inviato i suoi saluti.

Da un certo punto di vista, nulla impedirebbe che ambedue gli eventi siano realmente accaduti. Il particolare interessante è però che l’avvocato Marongiu raccontò l’aneddoto all’intervistatore di “Detto tra noi” mentre si trovava all’aperto, seduto ad un tavolino (probabilmente di un bar) proprio accanto all’avvocato Rita Dedola, anche lei interpellata dall’intervistatore; tutto ciò che Rita Dedola disse al riguardo in quell’occasione fu: “ Al processo di primo grado, in Corte d’Assise, al processo per l’omicidio della moglie, il pubblico era prevalentemente fatto di donne, composto di donne, e c’erano molte amiche sue”. Ma nessun accenno all'episodio della signora in studio venne fatto, né da parte dell'avvocato Marongiu, né da parte dell'avvocato Dedola. Vi sarebbe da chiedersi il perché. Così come vi sarebbe da chiedersi il perché nessun accenno all'episodio raccontato da Marongiu venga fatto da Rita Dedola nel video più recente. Come se la menzione dell'uno escludesse quella dell'altro.

Converrai con me, Lettore, che i due racconti darebbero adito a diverse perplessità; quando, la bella signora, avrebbe fatto la sua comparsa? In studio a Cagliari o in tribunale al Nord Italia? Perché durante la trasmissione nessuno accenna alla visita allo studio? Oppure si trattava di due belle signore diverse, ma che non possono essere ambedue menzionate nell’ambito della medesima intervista? A meno che uno stuolo di belle signore non volesse avvalersi dello studio Marongiu&Dedola come mezzo per inviare saluti, è improbabile che due episodi siano contemporaneamente e totalmente veritieri. E’ questo l’aspetto interessante: non c’é “verità”, qui. Nemmeno mostrologica.

Tutt’al più, se qualcosa relativo ai due episodi è realmente accaduto, essi potrebbero costituire, ambedue, due “mezze verità”. Ora, Lettore, ero già a conoscenza della proprietà additiva delle coincidenze ("One coincidence is just a coincidence, two coincidences are a clue, three coincidences are a proof" frase attribuita ad Agatha Christie, anche se nessuno sembra sapere in che occasione la scrittrice l'avrebbe formulata). Riconsiderando la vicenda relativa al “Mostro di Firenze” ho appreso anche dell'esistenza di una proprietà disadditiva delle frazioni di indizio (“mezzo indizio più mezzo indizio non fa un indizio ma zero indizi”) Ciò che ancora, però, non mi é riuscito di comprendere è se la proprietà disadditiva si estenda anche alla verità o meno: mezza verità + mezza verità fa una verità intera? O, come per gli indizi, fa zero verità? E ciò vale per ogni verità, compresa la “verità mostrologica”? L’affermazione, poi, dell’avvocato Rita Dedola riguardo al fatto che Vinci sicuramente qualcosa sapeva é forse meno interessante, in quanto ovvia; ma proprio per questo, totalmente condivisibile.

Quello che sarebbe un po' meno ovvio, ma proprio per questo molto più interessante, sarebbe sapere chi abbia salvato Salvatore... e perché, anche se il perché é forse intuibile.

Detto ciò, Lettore, posso finalmente porre la parola “fine” ad una serie di post su un argomento che, per quel che mi riguarda, considero definitivamente chiuso. E chiudo con le parole di Davide Rossi:

Una cosa che ho… abbiamo notato… cioè, facendo questo lavoro, è che, all’interno degli ambienti investigativi, ma anche gente in quiescenza da… dieci anni, quindici anni, c’è un minimo comune multiplo fra queste persone, che è il seguente: nessuno parla volentieri di questa cosa! E, se ne parla, ne parla a condizione che il suo nome non venga fatto

Se non vogliono parlarne loro, che sono professionisti, avranno di certo il loro motivo. Ed io, Lettore, che invece, da blogger da strapazzo, sono totalmente ignorante, pur senza comprenderlo, lo accetto acriticamente come fosse un consiglio, ed altrettanto acriticamente lo seguirò, per fede.

Come fosse una “verità mostrologica”.

Anche se di recente, mi sono trovato costretto ad aggiungere un post-scriptum.


IL MOSTRO DI FIRENZE, OVVERO LE OPINIONI, PARMENIDE, CARTESIO E LA RICERCA DELLA VERITÀ: Parte V



A novice in the game generally seeks to embarrass his opponents by giving them the most minutely lettered names; but the adept selects such words as stretch, in large characters, from one end of the chart to the other. These, like the over-largely lettered signs and placards of the street, escape observation by dint of being excessively obvious; and here the physical oversight is precisely analogous with the moral inapprehension by which the intellect suffers to pass unnoticed those considerations which are too obtrusively and too palpably self-evident.

Auguste Dupin




Questo, Lettore, è l’ultimo post della serie. Analizziamo brevemente la situazione di questa altra parte; in altri termini, come dice Davide Rossi, discutiamone.

C’era innanzitutto proprio il Lo Bianco, operaio palermitano meno che trentenne, con una moglie e tre figli a carico, e riguardo ai quali nella sentenza Rotella si legge come non versassero in condizioni economiche tanto migliori dei Mele. Però, questo operaio, che come dice Davide Rossi non sarà stato un delinquente, si presentava (al Mele, almeno) con uno pseudonimo, praticava la boxe (o, almeno, si vantava di farlo), poteva permettersi di uscire con l’amante, ed andare in giro con un’automobile che, per quanto acquistata usata, era ancora un’automobile “da professionisti”, non certo da operaio con un carico familiare simile. I soldi per l’acquisto se li era fatti anticipare dal datore di lavoro, restituendoli con trattenute mensili. Se allo stipendio da operaio sottraeva i soldi da restituire, come poteva campare la famiglia? Che ci fossero in ballo altri affari è testimoniato dalla moglie, Rosalia Barranca, alla quale lui avrebbe ventilato la possibilità di avere “una bella casa ed una bella macchina”, e che lei interpretò come volontà del Lo Bianco di entrare nel giro della prostituzione. Sta di fatto che Antonio Lo Bianco riguardo alla macchina possedeva già la Giulietta, ed aveva già cambiato casa, in quanto precedentemente abitava nella casa che poi avrebbe acquistato Stefano Mele. Condizione quantomeno dissonante con quella descritta dal giudice Rotella.

Altro siciliano, parte della comunità, era tale Ignazio Casamento; che però doveva avere una posizione ben diversa se dava lavoro ad altri. Non solo al Mele, ma anche al cognato di Lo Bianco; anzi, fu proprio quest’ultimo ad accompagnare a casa il Mele il giorno dell’omicidio. Mele il quale doveva proprio star male quel giorno se, definito dallo stesso Casamento “buon lavoratore” aveva addirittura sentito la necessità di venire riaccompagnato; chissà chi gli avrà riportato a casa la bicicletta, con la quale, secondo il rapporto Matassino, avrebbe raggiunto sua moglie e l’amante…

E nonostante tale possibilità di contatto (cioè il Mele ed il cognato di Lo Bianco erano colleghi di lavoro), nonché l’altro punto di contatto costituito dalla casa, il Lo Bianco, che con tutto ciò il Mele conosceva come “Enrico”, gli sarebbe stato presentato da un altro siciliano, “Virgilio”, al secolo Carmelo Cutrona, che però lavorava da tutt’altra parte, svolgendo un compito che richiedeva la manipolazione di nitrati, potenzialmente in grado di rendere positiva la prova del guanto di paraffina. Non si capisce bene, dai racconti, né come sia comparso il Cutrona, né perché anch’egli al Mele fosse noto con uno pseudonimo; così come non si capisce perché, considerato che ha sempre negato ogni legame con la Locci, nel pomeriggio dell’omicidio si fosse recato a casa dei Mele chiedendo informazioni, ed assicurando che sarebbe ritornato la sera, cosa che non fece. Nei fatti “Virgilio” sarà l’unico, oltre il Mele, a risultare positivo al guanto di paraffina.

Il c.d. “guanto di paraffina” pochi anni più tardi sarebbe stato sostituito dallo “stub”, in quanto dava un numero elevato di “falsi positivi”. Di solito, Lettore, quando si ha un eccessivo numero di falsi positivi, il test viene considerato poco attendibile perché troppo “inclusivo”, include cioè anche soggetti che dovrebbero essere negativi, e che risultano positivi per motivi che non hanno attinenza con la condizione che si intende rilevare; ne deriva che vengono presi in considerazione anche coloro che invece dovrebbero essere esclusi. Ad un elevato numero di falsi positivi, corrisponde pertanto una bassa predittività del test; in altri termini, nel caso del guanto di paraffina, molte persone che non hanno, in realtà, sparato, verrebbero incluse nelle indagini, i “falsi positivi”, appunto.

Ma qui, su sei persone i positivi erano solo due, Stefano Mele e Carmelo Cutrona; tutti gli altri sono stati esclusi, anche se la positività di Cutrona era puntiforme, bilaterale, ed arrivava ad interessare gli avambracci. Allora io mi sono chiesto, Lettore: se avessi avuto la necessità di risultare insospettabile dopo aver sparato, come mi sarei comportato? Mi sarei lavato le mani fino a consumarmi la pelle, senza alcuna garanzia di rendere veramente negativa una prova che rendeva positivo anche chi non lo era, o avrei esaltato la positività, estendendola addirittura ad ambedue le mani e le braccia, ben sapendo di avere una scusa plausibile (l’attività lavorativa) per una tale positività? Comunque sia, “Virgilio”, dopo guanto di paraffina, perquisizione domiciliare e confronto con il Mele, sparirà totalmente non solo dall’indagine, ma anche dalla circolazione, e mai si saprà né che faccia avesse, né che fine avesse fatto; non ne rimane neanche una foto.  E' possibile che sia stato sottoposto a perquisizione domiciliare dopo Giogoli, ma senza rilevare alcunché a suo carico; né d'altra parte, é detto che debba aver sparato negli omicidi successivi al 1968, e tantomeno, che dovesse detenere presso il suo domicilio qualcosa che lo ricollegasse a tali omicidi. Pertanto, così come era apparso, scompare.

Non così è stato per i cognati del Lo Bianco, fratello e fratellastro della moglie, che resteranno sulla scena anche negli anni successivi. Dovevano senza dubbio essere socievoli, considerato che uno di loro aveva riportato a casa il Mele; tanto socievoli che il Lo Bianco avrebbe voluto andare a cena con loro. Era la moglie che si opponeva; non gradiva che il marito si allontanasse dalla famiglia per troppo tempo, così lo rispedirono a casa, dalla moglie; questo è almeno ciò che sostiene Rotella. Giuseppe Barranca dichiarò invece come loro lo avessero invitato, ma sarebbe stato lui a rifiutare. Neanche qui ci sono certezze; l’unica certezza è che per uscire con Barbara Locci non vi erano ostacoli da interporre.

Inoltre, sembra che il gruppo dei siciliani fosse anche più articolato. C’era chi era vicino di casa dei Mele, lo zio di “Virgilio”… tutti sembrano appartenere ad una comunità meglio strutturata e con una maggiore presenza sul territorio.

Come si è detto prima, qualcuno (almeno a sentire Stefano Mele) era andato a casa Mele a cercare Barbara e, non trovandola, sembrava si fosse alterato; e questi era proprio “Virgilio”. Non ci sono informazioni riguardo ad eventuali reazioni al fatto che la Locci avesse portato con sé Natalino, considerato che Stefano Mele era malato a casa, e quindi Natalino avrebbe benissimo potuto rimanere con lui.

Quindi noi, Lettore, a distanza di mezzo secolo possiamo almeno fare delle considerazioni sulla validità delle alternative alla “pista sarda”, alla luce di quanto scritto in rapporti e sentenze. C’è un gruppo di sardi dalle abitudini (anche sessuali) quantomeno discutibili, che è in contatto non casuale ( rapporti lavorativi, personali) con un gruppo di siciliani, che mostra di essere più strutturato (c’è un imprenditore edile, ci sono rapporti di parentela che sembrano più stretti, etc.).

Nel gruppo dei sardi, c’è qualcuno che si vanta (o millanta) di aver ucciso la moglie ed averla fatta franca.

E’ plausibile che delle persone che avevano avuto il loro vantaggio (anche sessuale) da questa situazione uccidessero la Barbara Locci?

Ma avendo comunque deciso, per qualche motivo di farlo, è pensabile che decidessero di farlo proprio quando era con un’altra persona, uccidendo anche quella?

Ed è pensabile che lo facessero inoltre quando c’era anche il figlio di lei, potenziale testimone, e senza eliminarlo?

Ed è pensabile che il bambino si sia svegliato solo dopo sette o otto colpi di pistola, senza vedere nulla?

E’ pensabile che il gruppo dei siciliani l’avrebbe fatta passare liscia ai sardi, che avevano ucciso uno di loro e fatto tre orfani, senza tentare null’altro? Non dobbiamo perdere di vista il fatto che, se è vero che poi Francesco Vinci avrebbe avuto stretti contatti con l’Anonima Sequestri, è anche vero che la Toscana è una delle regioni d’Italia, escludendo ovviamente la Sicilia, in cui la mafia si sarebbe radicata più stabilente sul territorio prima di ogni altra organizzazione, sarda, calabrese, campana, etc. E Giacomo Barranca, fratello di Giuseppe, era in soggiorno obbligato in Lombardia, misura cautelare di solito adottata per indiziati di attività delittuose connesse alla mafia; appare quanto meno improbabile che un siciliano "in odore di mafia" abbia potuto subire passivamente l'assassinio del cognato senza nemmeno tentare una reazione. A meno che, beninteso, la reazione anziché rivolgersi a "ladri di polli" (come Calamosca definì Francesco Vinci) avrebbe dovuto venire diretta contro qualcosa di più grande, molto più grande di un clan sardo.

Ma su come poi si possa essere giunti da Lastra a Signa alla generazione di tale entità... Newton diceva, a proposito di una spiegazione della forza di gravità, hypotheses non fingo. Io che sono solo un blogger da strapazzo, posso solo dire opiniones non fingo.

Ciò che mi premeva era solo parlarTi un po’, Lettore, di opinioni e verità, prendendo questa pluridecennale vicenda come spunto; se vuoi cimentarti Tu in un’interpretazione di quegli avvenimenti posso solo, come nel caso di Baccaiano, darti due suggerimenti:

1) Sembra che qualcuno si sia adoperato, durante l’intera giornata, per evitare che Barbara Locci ed Antonio Lo Bianco uscissero insieme quella sera o, almeno, portassero con loro Natalino

2) Il gestore del cinema e la cassiera sostennero di non essersi accorti della presenza di Natalino all’ingresso; e questo può anche essere logico in quanto, poiché il film era vietato ai minori, ed il gestore poteva temere per la sua licenza. Una cassiera dirà di averlo notato all’uscita; secondo Mario Spezi, almeno.Però, anche Natalino, in tutte le testimonianze rese da adulto, riferirà di non ricordare di essere stato al cinema; e anche Stefano Mele, nonostante quanto affermi Cecioni, che farebbe bene, anche lui, a porre più attenzione nel leggere la sentenza Rotella, dichiarerà esplicitamente “di non aver mai visto sporgere la testa di Natalino dal sedile, attraverso il lunotto posteriore” durante il pedinamento

Potrei anche darTi qualche spunto di riflessione: la Barbara Locci aveva stipulato un'assicurazione sulla vita con Stefano Mele quale beneficiario; va da sé che se Stefano Mele fosse risultato l'assassino di Barbara Locci, non sarebbe stato liquidato. Così come, nei fatti, non lo fu. Questo, tra l'altro, renderebbe poco consistente l'ipotesi di chi vuole ancora vedere nel delitto del 1968 una motivazione economica e con essa il persistere della validità di una "pista sarda"; l'assicurazione sulla vita della Locci avrebbe consentito di riscuotere ben più della cifra che certe ipotesi vorrebbero alla base del movente dell'azione omicidiaria, ma l'ultima cosa da fare, volendo riscuotere la cifra per la morte dell'assicurata, sarebbe stata quella di individuare Stefano Mele come colpevole.

Invece, cosa fu fatto? Ci si adoperò, anche attivamente (vedi Mucciarini), affinché Stefano Mele confessasse. In altri termini, Barbara Locci sarebbe stata uccisa e Stefano Mele  sarebbe stato accusato del delitto non a causa di interessi economici, quanto piuttosto nonostante gli interessi economici.

Ora, Lettore, se l’assassino si fosse annidato tra i sardi, ma non fosse stato Stefano Mele, la confessione del Mele sarebbe stata funzionale al raggiungimento di un fine più elevato, prioritario rispetto al denaro, e cioè l’incriminazione del Mele per scagionare il vero assassino. Ma, se si era tanto tribolato per raggiungere tale fine, qual era il senso della segnalazione agli inquirenti, con il ritaglio di giornale, dopo Baccaiano?

Ma mi rendo conto di come io mi sta spingendo troppo in là, invadendo campi che non mi competono oltrepassando il confine tra blogger e mostrologo, tra opinione e verità; è meglio che termini qui il ragionamento per ritornare a quello che costituisce il reale argomento, l’oggetto della serie.



RITORNIAMO FINALMENTE A OPINIONE E VERITA’

Come è stato sottolineato prima, il primo assioma pretende che il Mostro sia unico, a causa delle difficoltà nell’immaginare come diversi individui possano condividere un simile passatempo. Ma esistono, ad esempio, gli stupri di gruppo. Potresti obiettare, Lettore, che uno stupro di gruppo non sia la stessa cosa di omicidio di gruppo. E' indubbiamente vero. Non lo é esattamente nella stessa misura in cui un omicidio di gruppo non é uno stupro di gruppo. Che tipo di spiegazioni “tecniche” avrebbe potuto fornire Mario Spezi a questo? Riprendiamo un momento la “verità” di Mario Spezi. Quale sarebbe il principio inconfutabile per il quale “Una malattia mentale di quel genere non si condivide, non si delega a nessun altro” mentre gli stupri si condividono? Ah già, dimenticavo che anche Mario Spezi era un mostrologo e, come tale, depositario della Verità per definizione; oppure era un’evidenza di fatto a cui Spezi voleva riferirsi? Il fatto che gli stupri di gruppo siano un’attività ricreativa frequente, e gli omicidi non lo siano?

Vi sono stati nella Storia innumerevoli esempi che hanno visto individui godere, in senso letterale o metaforico, della sofferenza altrui. Basti pensare alle decapitazioni dell'ISIS; qualcuno ha mai preso in considerazione la possibile esistenza di "tracce biologiche" nelle mutande di chi stava decapitando un suo simile straziandolo con un coltellino?

E se poi il movente principale dell’azione omicidiaria dovesse essere rappresentato dall’esercizio di un potere sulle vittime, dalla costruzione di un personaggio inafferrabile, e dalla sfida alle istituzioni, in base a quale principio un simile movente non potrebbe essere condiviso?

E d’altra parte, è esplicitamente previsto, in molte classificazioni attuali, la possibilità che gruppi di tre o più persone (superando così la limitazione imposta dalla folie à deux menzionata da Filastò) possano commettere omicidi seriali, addirittura con una composizione “fluida” del gruppo, in cui la presenza partecipativa dei vari componenti non sia costante. Ruben De Luca denomina tale categoria come “Omicidio seriale a numero variabile”, e la menziona nell’ambito di una classificazione che prevede anche l'esistenza di serial killer singoli, a coppie, o in numero di tre o più ma con componenti fissi. E riguardo alle motivazioni, o alla tipologia organizzativa, i criteri sono altrettanto vasti.

Tanto vasti, Lettore, che queste, più che essere “classificazioni” si risolvono in “descrizioni” che enfatizzano solo l’estrema variabilità che contraddistingue gli esseri umani. Sarebbe come dividere gli individui in base all’altezza: nella media, superiore alla media, inferiore alla media, e poi con i capelli neri, biondi, o di tutte le gradazioni intermedie, indi la corporatura, il colore degli occhi, etc. Alla fine, ciò non ha alcun contenuto informativo, individua una miriade di singolarità di cui ognuno ha una combinazione peculiare di caratteristiche che lo rendono unico, cosicchè non possa venire accomunato ad altri in alcun gruppo specifico.

Se poi ci rivolgiamo a patologie psichiatriche o ad atteggiamenti psicologici, le cose vanno ancora peggio.

Ormai le patologie psichiatriche sono non solo classificate, ma persino individuate tramite criteri soggettivi senza la benché minima garanzia di oggettività; rispecchiano convinzioni personali, non evidenze scientifiche.

La vita di relazione degli esseri viventi si esplica attraverso una serie di funzioni complesse, composte da una serie di subfunzioni, più semplici; e l'essere umano non fa eccezione. L'alterazione di una di tali sottofunzioni altera la macrofunzione che concorre a costituire, facendo comparire l'anomalia. Le subfunzioni non sono conosciute nei dettagli fisiologici, e così é attualmente impossibile differenziare le varianti normali dalle alterazioni patologiche, o stabilire a che risultato possa portare l'alterazione di una subfunzione.

Il DSM (o qualunque altra classificazione equivalente) non ha pertanto alcun mezzo, scientifico ed obiettivo, per stabilire cosa sia normale e cosa non lo sia; i suoi contenuti sono verità nella stessa misura in cui é vera una "verità processuale", o falsi nella stessa misura in cui sono "fantasiose" quelle che vengono ritenute "assolutamente non veritiere" da un blogger/youtuber. I contenuti del DSM sono equivalenti alla verità mostrologiche, alla "verità romana" di Odifreddi. Ad essi bisogna credere per fede; qualunque valutazione costruita sui suoi principi, scientificamente non ha valore. Matematicamente men che meno. Fare affidamento su simili parametri per stabilire se l'entità "Mostro di Firenze" sia costituita da uno o più individui, e quali relazioni intercorrano tra di esse, é come pianificare un viaggio in una regione lontana e poco conosciuta basandosi sull'oroscopo; tu lo faresti, Lettore? Eppure, c'é chi lo fa...

In generale, molto in generale, considera che il ritenere (senza fare riferimento a parametri oggettivi, intendo) “patologico” il comportamento di certi individui nasce dall’ovvia constatazione di non poter ricondurre a schemi razionali il loro comportamento; se io sono “normale” non posso razionalmente immaginare ciò che succede in una situazione nella quale si muove un soggetto “patologico”. I suoi pensieri, le sue azioni e le sue reazioni nascono in una mente diversa dalla mia, e quindi non li posso ricondurre agli stessi schemi che la mia mente seguirebbe, seppur in una situazione analoga.

Se io ad esempio cerco di immaginarmi mentre mi preparo alle escissioni con il coltello, mi immagino mentre valuto l’ambiente circostante, la possibilità di essere visto, di lasciare tracce, etc.; ma solo perché per me praticare le escissioni sarebbe una decisione razionale, per cui tutto il resto deve adeguarsi a tale razionalità.

Allora, cerco di aggirare tale ostacolo considerando l’individuo “patologico” ed affermando che, nell’impossibilità di immaginare personalmente gli impulsi che lo guidano e gli schemi che egli seguirebbe, faccio riferimento ad una patologia. Ma il comportamento “patologico” inteso in tal modo è altrettanto codificato, nella misura in cui si discosta dal comportamento che per definizione ritengo "normale", e pertanto la sua applicazione all’individuo rimane un’attività assolutamente razionale. Se razionalmente applico ciò che altri individui normali hanno, peraltro arbitrariamente (come nel caso del DSM) stabilito, ho solo spostato i termini del problema, senza alcuna garanzia che il mio “profilo” possa essere corretto, o almeno verosimile.

La mia “verità” resterà comunque una verità di fede, una “opinione” nobilitata dai riferimenti al testo sacro rappresentato dal DSM. E vorrei tenessi presente che ciò che penso sul DSM (e tutto ciò che ad esso collegato) sarà anche “opinone” mostrologicamente parlando, ma è ampiamente condivisa. Ad esclusivo titolo di esempio (e per il principio per cui un esempio vale più di mille parole) Ti riporto lo scambio di battute avvenuto nel 2010 tra lo psichiatra americano Daniel Carlat e Robert Spitzen, presidente del comitato che aveva curato la redazione del DSM III nel 1980, riguardo a come fosse stata individuata la soglia di cinque criteri per poter porre la diagnosi di “Depressione”:

Carlat: “How did you decide on 5 criteria as being your minimum threshold for depression?

Spitzer: “It was just consensus. We would ask clinicians and researchers, ‘How many symptoms do you think patients ought to have before you give them a diagnosis of depression?’ And we came up with the arbitrary figure of five.

Carlat: “But why did you choose five and not four? Or why didn’t you choose six?

Spitzer: “Because four just seemed like not enough. And six seemed like too much.

Se lo preferisci, Lettore, posso tradurti lo scambio di battute:

Carlat: “Come avete fatto a decidere che il numero minimo di criteri per porre diagnosi di depressione dovesse essere pari a cinque?”

Spitzer: “Solo tramite consenso. Chiedendo a diversi clinici e ricercatori: ‘Quanti sintomi ritenete che un paziente debba presentare prima di formulare una diagnosi di depressione?’ E così siamo giunti ad un valore di cinque”

Carlat: “Si, ma perché avete scelto proprio cinque e non quattro? O piuttosto sei?”

Spitzer: “Solo perché quattro non ci sono sembrati abbastanza. Mentre invece sei ci sembravano troppi”.

Ed un principio analogo venne applicato per la “derubricazione” dell’omosessualità: una votazione, cioè l’espressione di pareri soggettivi ed individuali sull’argomento. Se io mi ritengo, per definizione "normale" ed ho determinate inclinazioni, non posso vedere nulla di "patologico" in chi ha le stesse mie inclinazioni.

In questo modo, Lettore, noi possiamo far scomparire, per definizione, vecchie patologie così come farne comparire di nuove a nostro piacimento; questo cambia sicuramente la nostra descrizione della realtà, ma non cambia in alcun modo la realtà stessa. Evito qui di usare l'esempio del dito e della Luna, solo perché abusato, e spesso a sproposito.

Ed ancora più incerto rimane il terreno su cui si muove la Psicologia. Vedi, Lettore, il fatto che le Scienze Biologiche (Medicina, Biologia, Veterinaria…) non siano scienze esatte, è indubbio; nondimeno, esse permangono “scienze”, potendo applicare ad entità oggettive un metodo scientifico, sebbene non un modello matematico. La Psicologia apparterrebbe alle Scienze Sociali, nelle quali diviene molto più labile l’applicazione di un metodo scientifico; ma soprattutto manca l’esatta delimitazione dell’elemento oggettivo. Questo rende, nei fatti, vano ogni proclama della “psicologia scientifica”. Disquisire su questo aspetto qui diviene troppo lungo e complesso, prolungando ulteriormente (ed inutilmente) dei post che nell'idea originaria avrebbero dovuto essere ben più stringati; può risultare illuminante al riguardo, però, l’articolo comparso sulla rivista Science: “Estimating the reproducibility of psychological science Science 2015 Aug 28;349(6251)”. Un riferimento più sintetico, ed in italiano,può invece essere costituito dall’articolo liberamente disponibile sul Web “Umberto Galimberti e la psicologia come non-scienza”. Più in generale, sebbene si voglia fare risalire a Wundt l’invenzione di una psicologia “scientifica”, i concetti sui quali si basa la riferimento più classico di tale concetto è trattato nei dettagli nel celebre saggio di Karl Popper “Conjectures and Refutations. The Growth of Scientific Knowledge”, che risale al 1963, ma che origina da analisi che Popper cominciò a condurre già nel 1913. Essenzialmente si basano sulla “non falsificabilità” (si era già accennato, nel primo post dedicato alla Verità ed al Mostro, al concetto di come la “falsificabilità” fosse una qualità positiva della Scienza) delle pseudoscienze, che deriva dal fatto di poter adattare alla bisogna i loro paradigmi alle osservazioni. E la possibilità di definire la realtà sulla base di definizioni, e pretendere di cambiare la realtà cambiando al volo, se necessario, tali regole é esattamente ciò che accade con il DSM. O la contrapposizione tra la verità del mostrologo e l'opinione dell'uomo comune.

Per avere anche solo un’idea di quanto siano proteiformi ed indefinibili i contorni che definiscono le entità sulle quali la Psicologia pretende di condurre ricerche scientifiche è sufficiente considerare, per quel che riguarda l’entità “coscienza”, l’introduzione del saggio, peraltro ottimo ed affascinante, di Julian Jaynes dal titolo:

THE ORIGIN OF CONSCIOUSNESS IN THE BREAK DOWN OF THE BICAMERAL MIND, pubblicato in italiano da Adelphi con il titolo “Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza


Una sola persona con le caratteristiche di una moltitudine
 
Ma poiché il mio spazio, ma soprattutto la Tua pazienza, Lettore, si approssimano ormai al termine, in questa sede non posso che concludere limitandomi a mostrarTi queste tabelle tratte da:

Sexual Homicide: Patterns and Motives Robert K Ressler, Ann W Burgess, John E Douglas e che sono state riprese da diversi autori italiani, come Picozzi e Zappalà o lo stesso De Luca

Su di esse ho indicato le caratteristiche mostrate dall’entità “Mostro di Firenze” che non consentono di classificare il Mostro come “organizzato” o “disorganizzato” ; come vedi alcuni elementi caratterizzano una tipologia mentre altri, pur presenti nei delitti del Mostro, caratterizzerebbero la tipologia opposta.






Facendo fede a tali tabelle, l’entità “Mostro di Firenze” non potrebbe essere riconducibile ad una singola tipologia di omicida, e pertanto difficilmente potrebbe essere costituita da una sola persona.

Uno degli autori italiani, però, si affretta a precisare come la dicotomia creata dall’FBI non sia così netta “in quanto la maggior parte degli assassini seriali, così come gli esseri umani in generale, presentano elementi di organizzazione e disorganizzazione, miscelati in una gradazione variabile da soggetto a soggetto

Persino Davide Rossi, che pure ha condotto un lavoro di gruppo pregevole, è costretto a descrivere il suo uomo come qualcuno che sappia maneggiare le armi, che sappia muoversi con sicurezza, che sia in grado di costruire doppi fondi sulle automobili e riverniciarle, che faccia diversi sopralluoghi diurni e notturni nella zona dove colpirà, che sappia come eludere i posti di blocco, che sia consapevole delle trappole tese dagli investigatori, che riesca a non farsi mai individuare, che abbia un atteggiamento insospettabile, che pianifichi nei particolari ogni aspetto dell’omicidio, dall’occultamento della propria vettura alla via di fuga, che possa avere un rifugio, etc.…

E ritengo che Davide Rossi abbia condiviso, almeno in parte, la profilazione con Emanuele Santandrea che, in più, attribuisce al Mostro di Firenze notevole forza fisica, vista e udito eccezionali, capacità di muoversi al buio, capacità di orientarsi con le stelle, capacità di uccidere a mani nude, sceglie le vittime… questo, Lettore, non è il ritratto di uno psicopatico. Questo è Diabolik.

Che una sola persona possa fare ciò non è assolutamente impossibile; nondimeno, resta improbabile. Ci sono persone che da sole riescono a spostare, tirandoli con delle funi, persino dei TIR, ma sono casi eccezionali; fra loro Björnsson, in grado di sollevare da terra 500 kg. Però Lettore, se tu entrassi in un locale dove non c'é alcun sollevatore, e ti rendessi conto che un motore ad otto cilindri comprensivo di trasmissione è stato sollevato da terra e poggiato su un supporto, quale spiegazione riterresti più probabile? Che sia stato spostato con la collaborazione di più persone, insieme, o che sia Björnsson che passava da quelle parti? E se questo fosse avvenuto ben sette volte? Non ti apparirebbe quantomeno improbabile?

Eppure, i vari profiler (di Quantico in primis) continuano a sostenere con sicurezza l’unicità dell’autore, e lo fanno avvalendosi di “strumenti” che non sono in grado di garantire sicurezze di alcun tipo. Discutere su queste basi può mai portare a conclusioni?

Chiunque abbia preso in considerazione le possibili spinte che hanno condotto a questa serie omicidiaria, è giunto a conclusioni diverse; si spazia dal lust murder all’omicidio su commissione di sette sataniche, passando per terrorismo di destra e servizi segreti. E ciò nonostante i mirabili strumenti messi a disposizione dalla Moderna Criminologia.

Perché, Lettore, qui non si tratta solo di un insuccesso investigativo e giudiziario; si tratta soprattutto del fatto che ci si avvale di tecniche ammantate di un’aura di scientificità, ma che non sono nemmeno in grado di generare un ipotetico profilo condiviso da tutti, che possa mettere tutti d'accordo.

Niente punti fermi, niente basi oggettive, niente verità scientifica, solo valutazioni personali, tutte discordanti; valutazioni personali discordanti che però, non appena declamate da un Mostrologo, assurgono al rango di verità assoluta. Il resto sono “ipotesi fantasiose”, “scorie” o nel migliore dei casi, “opinioni”.

Vi sarebbe da chiedersi cosa abbia generato il primo assioma, relativo all’unicità del Mostro. E’ mia opinione (non in senso mostrologico, ma nel senso dato al termine dalle persone normali) che il processo dei “compagni di merende” abbia avuto una grande parte nel generare una sorta di reazione tra i mostrologi, che fa vedere loro l’ipotesi delle più persone come fumo negli occhi. Ma una parte ben più grande, sia presso i mostrologi, sia presso alcuni inquirenti, deve aver giocato il criminal profiling. Per quanto riguarda poi gli inquirenti, ritengo vi sia un’altra componente, cruciale, che sembra aver impedito loro di vedere ciò che era macroscopico; ma poiché il mio spazio ed il mio tempo volgono al termine, non vi é alcuna possibilità di accennarne.

Così, Lettore, sono costretto a terminare qui, scusandomi con Te per l'eccesso di punti interrogativi che ho usato prima, al termine delle mie frasi. Ripongo l'entità "Mostro di Firenze" nel dimenticatoio dal quale l'avevo tratta, e torno alla mia attività di blogger di strapazzo; lascio ai mostrologi vecchi e nuovi l'onere di continuare a rivelare tutte le verità passate presenti e future, augurando loro buona fortuna. E senza darsi troppo fastidio l'un l'altro: se si organizzano a dovere, c'é spazio per tutti, ed ancora ce ne sarà per anni.

Prima di terminare, però esprimere un ultimo pensiero, che riguarda le vittime piuttosto che gli assassini o sedicenti tali… se i bossoli ed i proiettili fossero davvero stati sostituiti, ciò significherebbe solo che l’arma usata per l’omicidio Lo Bianco-Locci non era quella del Mostro di Firenze; ma era comunque una calibro 22 semiautomatica.

Quindi, nel 1968 una coppia appartata, di cui l’uomo era un palermitano, sarebbe stata uccisa a colpi di calibro 22 semiautomatica, che non è quella del Mostro, il portafogli di lui non è gli stato trovato addosso, è stato invece rovistato nella borsetta di lei, ma senza prendere i soldi, e non sono state inferte coltellate, né è stata mutilata… perché quanto accaduto nei pressi del Serchio, nel lucchese, sedici anni dopo, è stato interpretato come una rapina finita male? Perché sul fondello dei bossoli non c’era una “H”? Ma, come ho detto prima, Lettore, opinones non fingo.



CORAGGIOSO IL MERCOLEDI'

Ma se, per caso, animato da velleità letterarie, avessi voluto dare libero sfogo alla mia fantasia, per scrivere, ad esempio, un romanzo senza alcuna base reale, come l'avrei fatto?

Be', con ogni probabilità l'avrei intitolato "Coraggioso il mercoledì", e la trama, in grandi linee, sarebbe stata simile alla seguente; tengo a ribadire come l'origine totalmente fantasiosa di essa sia mostrologicamente certificata, sebbene in qualche modo aderente a quanto riportato a pag. 19 di Servizi segreti italiani. 1815‐1985 del gen. Ambrogio Viviani:

Nel secondo dopoguerra, in seguito alle conferenze di Teheran, Jalta e Potsdam, si determinò una situazione di conflitto latente tra l'Unione Sovietica ed il blocco occidentale, del quale facevano parte gli USA, che avrebbe dato luogo alla cosiddetta "guerra fredda".

Nell'ambito di tale situazione. gli USA si adoperavano attivamente in Italia affinché eventuali legami, politici e non, con l'Unione Sovietica, venissero inibiti; tale attività veniva eseguita, in maniera del tutto ufficiosa, tramite certi apparati statali, che spesso facevano ricorso ad organizzazioni di tipo politico o di tipo criminale.

D'altra parte, in certe regioni d'Italia, gli americani, sempre perseguendo un fine anticomunista, avevano contatti diretti con ambedue le tipologie di organizzazione già da prima della fine della guerra.

Negli anni della contestazione giovanile, qualcuno, che in qualche modo faceva da tramite tra alcuni apparati statali e certe organizzazioni criminali, decide di fare il salto di qualità. Per quanto sommariamente addestrato, non é un militare, quanto piuttosto una via di mezzo tra un infiltrato ed un informatore, sul libro-paga dell'organizzazione ed a cui, come d'uso in simili casi, viene assegnato uno pseudonimo; ma ad un tratto ritiene di poter ricavare un ulteriore utile dalla sua posizione o vendendo informazioni o minacciando di farlo, ma ponendosi comunque in una "posizione contrattuale" diversa, meno subordinata. Inoltre, fa il gradasso, mettendosi in mostra ed usando lo pseudonimo anche quando non dovrebbe.

Un ufficio, parte degli apparati statali, ne decide pertanto l'eliminazione, che deve avvenire senza destare sospetti; affidando l'operazione ad un'apposita squadretta, messa insieme per svolgere tale servizio .

I tempi sono piuttosto stretti e per una serie di fatti contingenti non risulta possibile organizzare un falso incidente, così la squadretta é costretta a ricorrere ad un omicidio; si presenta l'occasione di poter fare apparire l'omicidio come un "delitto d'onore", e per questo si sceglie una calibro 22, arma adatta alla messinscena.

L'incolumità di un minore coinvolto suo malgrado nella vicenda, viene contrattata barattandola con una confessione di colpevolezza di qualcuno, che suggelli definitivamente l'episodio e storni i sospetti escludendo così, pur in presenza di numerose zone d'ombra, altre possibili interpretazioni in chiave diversa. Un reo confesso é una garanzia di successo; ed infatti l'episodio viene archiviato come banale fatto di cronaca. D'altra parte, il reo confesso sarebbe proprio il padre del minore, cosicché il fatto che quest'ultimo venga risparmiato corrorebbe la sua confessione.

Trascorre qualche anno, che reca con sé anche qualche sovvertimento politico, uno dei quali coinvolge, anzi travolge, pure (o soprattutto) l'ufficio che si era occupato della summenzionata vicenda; anzi, l'ufficio viene addirittura chiuso, smantellato. Chi occupava posizioni verticistiche viene inviato altrove, ufficalmente, come sempre accade in simili casi, per un avanzamento di carriera, ma la realtà é che deve essere rimosso per motivi politici; mentre i gruppi operativi di base transitano nelle nuove strutture. Così, la nota squadretta passa, almeno formalmente, alle dipendenze di nuovi direttori; ma nella sostanza, suoi componenti rimangono uniti.

I quadri intermedi, senza la guida dei capi, che consideravano a tutti gli effetti dei punti di riferimento e dai quali erano protetti e sostenuti, pianificano, di concerto con i componenti della squadretta, un'operazione finalizzata a gettare discredito sui nuovi arrivati, sulle strutture che questi gestiscono, per nuove o rinnovate che siano, e conseguentemente sui loro referenti politici.

In altri termini, l'operazione, da condurre, da parte della nota squadretta, con pochi scrupoli, deve mettere in palese difficoltà il nuovo
establishment, dimostrandone l'inefficienza e generando un perenne stato di insicurezza nella cittadinanza; e tutto ciò con il beneplacito dei quadri intermedi. Ciò anche perché il nuovo establishment ha posizioni più morbide verso certe correnti politiche precedemente avversate.

L'intero piano prende ispirazione da un
format ben conosciuto dalla squadretta, ma con l'importante variante che mentre nel piano originale era fondamentale che l'azione avesse meno risonanza possibile, per non destare sospetti, qui invece l'obiettivo da conseguire é la massima risonanza possibile.

Di conseguenza, se prima l'era necessario assicurare subito un colpevole alla giustizia, così da distogliere immediatamente l'attenzione dell'opinione pubblica, ora deve essere perseguito il fine esattamente opposto, cioè impressionare l'opinione pubblica senza la possibilità di individuare un colpevole, mantenendo la cittadinanza nell'incertezza e screditando chi dovrebbe, a livello istituzionale, risolvere il problema.

Chiaramente, in accordo al
format originale, l'arma più adatta sarebbe stata di un tipo non lontanamente assimilabile ad quelle usate in ambito militare, o dalla criminalità organizzata; una calibro 22, che potesse più facilmente essere in possesso di un cittadino comune, risultava l'arma più adatta. Viene così creata un'arma fittizia, inesistente, e quindi impossibile da individuare, esplodendo due intere scatole di cartucce Winchester LR22 con una semiautomatica Beretta, a canna corta, e conservandone i bossoli. La Beretta viene poi distrutta.

Poiché l'arma é adatta alla rappresentazione, ma inadeguata alla bisogna, si supplirà alle deficienze con arma da taglio, assicurandosi che nessuna delle vittime sopravviva. Ciò potrà fornire inoltre quell'impatto emotivo che impressioni l'opinione pubblica, cosicché gli eventi restino ben impressi.

La scelta delle vittime avviene anche su base "politica"; da un lato essa segue le direttive dell'ufficio originale, dall'altro si configura anche come una sorta di risposta verso i responsabili dello smantellamento dell'ufficio stesso. Esse in effetti vengono uccise con una calibro 22, ma i bossoli non vengono lasciati sul posto, ed in luogo di essi vengono sparsi quelli messi da parte appositamente per il progetto. Si procede quindi ad una forma volutamente impressionante di vilipendio di cadavere.

Il risultato ha certamente un grosso impatto emotivo; tuttavia le interpretazioni della stampa e della collettività non sono univoche. Sebbene l'azione risulti indubbiamente impressionante, non é perfettamente chiaro quale possa esserne il movente.

Trascorre qualche tempo, e nell'area interessata dall'operazione, avviene qualcos'altro: ai vertici di apparati istituzionali locali viene nominato qualcuno che ha uno strettissimo legame con il diretto responsabile, il "mandante" dello smantellamento dell'ufficio operato qualche anno prima. Ed inoltre, questo qualcuno ha già assunto posizioni eccessivamente dure con qualche rappresentante delle organizzazioni politiche che finora avevano agito di concerto con gli apparati statali.

Le operazioni vengono allora replicate, ma con una minore attenzione alla tipologia delle vittime, ed una maggiore attenzione al dettaglio sensazionalistico. Le modalità di vilipendio del cadavere vengono variate in corso d'opera, anche in dipendenza dai componenti della squadretta, che non sono sempre tutti presenti; in un caso,un escissore troppo zelante giunge ad esporre addirittura le anse intestinali di una delle vittime. Inoltre, dopo qualche episodio uno dei componenti fondamentali della nota squadretta, in posizione di supervisore, viene meno, ed in seguito a ciò l'azione diviene ancor più disomogenea e, in qualche caso, pasticciata; ed anche a ciò occorre porre rimedio.

Vi é comunque una evidente difformità nel modo in cui ogni singola operazione é condotta; ma l'analisi dei reperti balistici gioca un ruolo fondamentale, evidenziando comunque una continuità di agente dei crimini; lo stratagemma della Beretta ha funzionato, e nell'ambito giornalistico o degli inquirenti si cercano giustificazioni delle difformità tra i vari eventi salvaguardando il principio dell'identità dell'arma, che diviene automaticamente "identità di agente".

Tale identità costituisce l'unica base di organizzazione delle indagini; d'altra parte, però, ciò contribuisce a far divenire un po' più concitata l'azione, e senza andare tanto per il sottile. Questo perché non appena qualcuno viene arrestato per i delitti, il gruppo deve intervenire con un nuovo evento.

E ciò evidentemente non per "scagionare" il presunto colpevole e nemmeno per "intestarsi i delitti", ma per la ragione, molto più banale, che l'arresto dell'autore del crimine farebbe ritenere all'opinione pubblica che il problema sia stato risolto, dando alla popolazione un rinnovato senso di sicurezza nonché un'immagine di efficienza delle forze dell'ordine smorzando al contempo le paure della cittadinanza, ambedue effetti contrari a ciò che si intende conseguire. Pertanto, ad ogni arresto deve corrispondere un'azione che mostri come in realtà il pericolo non sa cessato e le istituzioni abbiano ancora una volta fallito. Ma soprattutto, occorre scongiurare il pericolo che chi sa, parli; se viene arrestato, occorre grantirgli che venga rimesso in libertà in cambio del silenzio. Se in galera, sotto pressione, decide di parlare, le minacce potrebbero non essere più sufficienti.

La squadretta gode, come già accennato, di protezione locale, garantita da chi occupava, ed occupa ancora, posizioni intermedie, ma é rimasto legato politicamente ed ideologicamente, ai vecchi capi caduti in disgrazia ed ad essi fedeli. Le azioni restano in realtà, se non proprio maldestre, almeno poco curate nei particolari: il numero dei bossoli e dei colpi esplosi non coincide e ciò rende le dinamiche impossibili, il vilipendio del cadavere é incostante nella tipologia, ed a volte é assente, a causa della variabilità nei componenti del gruppo, le escissioni sono "asettiche" e non mostrano una chiara pulsione sessuale alla base di esse, in quanto "teatrali" etc.

Può accadere che qualcuno dei componenti del gruppo venga avvistato nei pressi del luogo dell'operazione; o che possa addirittura essere vista l'intera squadretta in azione o nelle immediate vicinanze temporali di questa. E ciò perché il teatro dell'azione può avere delle frequentazioni notturne da parte di individui che, nonostante le precauzioni prese (allontanamento di possibili testimoni, scelta di notti non illuminate dal chiarore lunare, che permetterebbe di cogliere movimenti di persone anche da una certa distanza) si imbattano accidentalmente negli eventi. In questo caso, il collaudato sistema della minaccia dell'uccisione dei figli riesce a far tacere gli inaspettati testimoni senza dover ricorrere ad ulteriori omicidi, che aumenterebbero i rischi di essere individuati, compromettendo inoltre non solo l'operazione, ma soprattutto l'apparato da cui essa ha origine.

L'identità dell'arma riesce però a rimediare a tutte le manifestazioni di pressapochismo; tutto ruota intorno alla fantomatica Beretta, cosìcché si ritiene di dover trovare giustificazione ad ogni incongruenza ricorrendo a spiegazioni che in alcuni casi giungono fino alle più inverosimili fantasie. Esse alla fine generano una sorta di "Superman" agile, forte, abile, ben addestrato che riesce ad aggirare le trappole poste in essere dalla polizia facendosi beffe degli inquirenti. E tutto questo nonostante vi siano una serie di "suggestioni" che indichino, con pochi dubbi, come nella vicenda siano coinvolte più persone, ed esse abbiano accesso a delle informazioni che sarebbero più alla portata di qualcuno vicino alle istituzioni che di Superman.

L'ultimo atto é l'invio di proiettili e lembi di cute alla parte avversa, azione che rasenta il dileggio proprio per sottolinearne l'inadeguatezza e gettare il massimo del discredito sul loro operato.

Ed é l'ultimo atto proprio perché la situazione evolve ancora; le persone cambiano nuovamente; e la necessità di certe operazioni, peraltro terribili, viene meno. Esse non hanno più alcuna giustificazione.

E con il cambiare delle persone, anche gli assetti degli uffici evolvono ulteriormente. Tanto che se prima, all'interno di qualcuno di essi, c'era chi si fosse posto il problema, avanzando ipotesi riguardo a gruppi di persone potenzialmente responsabili di questi crimini, successivamente l'ulteriore evoluzione conduce alla sparizione delle ipotesi precedenti ed alla generazione di nuove, che fungano da schermo suffragando l'ipotesi di un killer unico. Anzi, viene addirittura scritto un romanzo, che sebbene di poco successo, avrà una ristampa; in esso, nel quale si tenta di far convergere ogni singolo evento attinente alla vicenda, viene fornita una spiegazione verosimile dell'accaduto, assolutamente coerente con l'ipotesi di un killer unico, e che, strizzando l'occhio agli indizi raccolti nella vita reale, sembra voler suggerire qualcosa. Qualcosa di diverso da ciò che é realmente accaduto, ovviamente, stornando l'attenzione da possibili, più veritiere, ipotesi.

Né alcuna prova inequivocabile potrà mai trovarsi al riguardo. E' infatti nello stile dell'ufficio da cui tutto ha origine, pur non potendo evitare di lasciare qualche indizio, compiere determinate operazioni senza che ne rimanga la benché minima traccia documentale.

Alla fine, una volta spento l'incendio, occorre recuperare dalle ceneri ciò che si può, rimediando, per quanto possibile, il danno che le istituzioni, messe in difficoltà da questa vicenda, hanno patito. Così, con la stessa disinvoltura e la stessa mancanza di scrupoli con la quale quella che, bene o male,  una parte dello Stato aveva perseguito i suoi fini ammazzando quindici innocenti, un'altra parte dello Stato commina senza esitazione pene gravissime a persone altrettanto innocenti. O distrugge le loro vite.


Ed al termine di quest'ultimo atto, nient'altro di nuovo sembra più accadere ed il romanzo finisce; mi duole, Lettore, ma non ho trovato modo di far rientrare le "morti collaterali" nella trama. Sembra non esserci posto per loro. Con l'unica possibile eccezione rappresentata dalla morte di Francesco Vinci.

Ti lascio con quest’ultima, banale, considerazione.