martedì 8 febbraio 2022

IL MOSTRO DI FIRENZE, OVVERO LE OPINIONI, PARMENIDE, CARTESIO E LA RICERCA DELLA VERITÀ: Addendum



One coincidence is just a coincidence, two coincidences are a clue, three coincidences are a proof

Anonymous




SALVATORE VINCI


Spesso, Lettore, accade che prima di pubblicare un post sul blog, chieda a qualche familiare di leggerlo; magari i contenuti risultano chiari a me, che l’ho scritto, ma la forma in cui sono espressi può rendere i concetti oscuri per chi legge per la prima volta. O vi possono essere, semplicemente, delle espressioni che suonano male, oppure errate, delle quali non mi accorgo.

Chi, stavolta,  ha letto in anteprima quelli relativi al "Mostro di Firenze", ha poi approfondito autonomamente alcuni aspetti della storia. E, forse anche a causa di tre video recentemente pubblicati su un canale YouTube dedicato, che poi è quello sul quale sono presenti i video di colui che ho denominato Davide Rossi, è rimasto particolarmente colpito dalla figura di Salvatore Vinci; soprattutto per il fatto che non sembrasse si fossero verificati eventi che l’abbiano inequivocabilmente scagionato, come per gli altri sardi o per Spalletti (cioè, omicidi durante un periodo di detenzione o di viaggi all’estero). E nonostante ciò, o forse proprio per questo, è stato uno dei pochi, tra coloro coinvolti in questa storia, a non fare una brutta fine.

Dopo aver appreso tutte le verità, mostrologicamente parlando, al riguardo, mi ha chiesto quale fosse la mia opinione in proposito; ed io, dopo averla esternata, ho aggiunto parte di essa in coda alla serie dei post. Senza che ciò voglia in qualche modo rappresentare l’intenzione di continuare sull’argomento “Mostro di Firenze”.

Chiariamo subito un concetto riguardo all’equazione Salvatore Vinci = Mostro di Firenze; anzi, facciamolo chiarire ad un ex carabiniere intervistato da Davide Rossi ed a Davide Rossi stesso:

Dall’82 in poi è stato perquisito sette volte. Per lunghi periodi era piantonato sotto casa. Lui lo sapeva, e si divertiva anche un po’… per strada, col motorino, provava anche, per divertimento, a seminarci. Era un tipo scaltro. Fu perquisito nell’83 dopo il delitto, nell’84 dopo il delitto, nell’85 era pedinato e fu poi perquisito. Quindi dobbiamo scartarlo; anche se poi cercarono di incriminarlo per quella storia della moglie. Poi adducendo la questione che, per una questione di turni di qualche ora, il pedinamento del Vinci la domenica del delitto degli Scopeti era stato sospeso, fu valutato anche di incriminarlo come “mostro”. Ma, sembra che il delitto risalga addirittura al giorno prima; e il giorno prima il Vinci era a casa con i suoi angeli custodi. E poi, un tizio scaltro come il Vinci, che sa di essere pedinato, si prende la briga di fa’ un delitto del genere? Come faceva a sapere che per poche ore non c’eravamo? E come faceva a sapere che avrebbe avuto il tempo di andare e tornare? Non è possibile, punto e basta.

Quindi, la questione del Vinci, si risolve… Salvatore… si risolve in maniera estremamente semplice. Perché dal momento che Salvatore Vinci, oltre che perquisito, è seguito periodicamente, era casualmente seguito fino al delitto degli Scopeti. Quando un carabiniere ti dice: “noi ci assentiamo due ore” questo come faceva a usci’ di casa… prendendosi un rischio mostruoso, perché poi non sapeva quando si sarebbero ripresentati! Questo esce di casa… chiaramente non poteva ave’ fatto sopralluoghi né niente… a colpo sicuro prende la macchina e va a San Casciano, a caso… casualmente ti becca la coppia, che se ne trovava assai poca in quel periodo, per non dire nessuna… compie i delitti… oltre questo si era preparato, a suo tempo, la lettera famosa della Della Monica, si piglia l’ulteriore rischio di anda’ fino a San Piero a Sieve, spedire la le…e tornare a casa. Non sapendo, se nel frattempo, avevano ripreso, i pedinamenti! Quindi… Salvatore Vinci… basta dire questo, per scagionarlo!


Ciò detto (da Davide Rossi), da un certo punto di vista, il personaggio di Salvatore Vinci in questa vicenda, non mi appare poi così diverso da quello di Pietro Pacciani.





Come Pacciani, entra nelle indagini essenzialmente sulla base di una segnalazione anonima (la lettera per Pacciani, il ritaglio di giornale per Vinci)

Come per Pacciani, la collocazione sul luogo del delitto come killer avviene sulla base di testimoni di dubbia attendibilità (il Lotti per Pacciani, il Mele per Vinci)

Come per Pacciani, le "testimonianze" si riducono a possibili "avvistamenti" nei pressi delle zone del crimine in orari che avrebbero una certa attinenza con i crimini (Pacciani in automobile o agli Scopeti, la maglietta a strisce di Vinci per Giogoli o l'uomo per strada per Baccaiano)

Come per Pacciani, vi sono testimonianze indirette di possesso ed uso di pistola, senza che questa sia mai stata trovata.

Come il Pacciani, l'unico indizio che forse lo lega all'arma del delitto (il proiettile per Pacciani, lo straccio per il Vinci) é labile e sua reale appartenenza al sospettato non é provata.

Come per Pacciani, la sorveglianza attiva (intercettazioni, pedinamenti) non ha condotto a nessun risultato concreto.

Come per Pacciani, ad un certo punto viene teorizzata un'azione omicidiaria coadiuvata da persone che hanno stretti contatti relazionali (i compagni di merende per Pacciani, fratello o figlio per il Vinci)





Come Pacciani, viene considerato un "mostro" per i suoi trascorsi omicidiari o presunti tali (Pacciani per il Bonini, Vinci per la Steri)

Come Pacciani, viene considerato un "mostro" anche per la depravazione sessuale (il Pacciani andava con le figlie, Vinci con altri uomini, donne e uomini, etc.)

Come Pacciani, viene lasciato dalla moglie non appena questa può sottrarsi.

Come per Pacciani, l'ipersessualità (in qualunque senso sia diretta) di fatto non corrisponde all'iposessualità postulata dalla criminologia.

Come per Pacciani, molti innocentisti “noti” si sono mossi (Sgarbi per Pacciani, i giornalisti per Vinci)

Come per Pacciani, un livello intellettuale che lo porta a superare i limiti impostigli da un ambiente retrogrado e culturalmente povero, gli consente una, seppur embrionale, espressione artistica (Vinci suonava la fisarmonica, Pacciani disegnava).

Come per Pacciani, il confronto diretto dà l'impressione di trovarsi di fronte ad una persona, anche se non di cultura, furba, intelligente ed acuta.





Come per Pacciani, le sue abitudini sessuali lo rendono certamente un depravato, ma non altrettanto certamente il “Mostro di Firenze” Allora, Se Pacciani non é mostro, perché mai dovrebbe esserlo Vinci?

Che poi furbizia, intelligenza ed acuzie possano essere state dirette in direzioni diverse è qualcosa che probabilmente discende da differenze caratteriali, e dalla frequentazione di ambienti differenti; cosa che fa sì che anche gli appoggi ricevuti dai due siano diversi. E Salvatore Vinci è senza dubbio un personaggio molto più enigmatico di Pietro Pacciani

Pacciani puntava sull’istrionismo. Cercava di dare di sé l’immagine della povera vittima (“l’agnelluccio al quale state tagliando il colluccio”); e, considerati i suoi trascorsi, che rendevano comunque difficile essere compassionevole verso di lui, un risultato in tal senso lo ottenne. Anche se, bisogna dire, affiancato da legali altrettanto abili

Salvatore Vinci, invece, in qualche modo si muoveva in modo inapparente, sotterraneo. La sua astuzia era certamente più raffinata, ed era palese quando si divertiva a cercare di seminare i suoi pedinatori, ben sapendo che nulla poteva essergli imputato per tale azione. Dispettoso per il piacere di esserlo.

C’era però dell’altro; e questo altro lo differenzia ancor di più da Pacciani. E’ improbabile che, se avesse davvero ucciso la povera Barbarina Steri, Rotella non sarebbe riuscito ad incastrarlo. Una faccenda è scoprire chi sia l’assassino; un’altra è averlo in pugno e non riuscire a trovare nulla. Però… se lui fosse stato colpevole, non avrebbe potuto farla franca senza l’aiuto di qualcuno. Mi spiego meglio. Una delle argomentazioni che venne (e viene ancora oggi) portata contro di lui riguardo alla morte di Barbarina, è il fatto che la poverina non poteva essersi suicidata utilizzando una bombola di gas ormai esaurita; e la necessità che ella si fosse recata dai vicini per riscaldare il latte del bambino comproverebbe come la bombola fosse esaurita.

E Salvatore Vinci stesso avrebbe detto al Mele di avere ucciso Barbarina.

Però, chi entrò con lui nella stanza ove giaceva, morta, la moglie, e cioè il fratello ed il padre di Barbarina, ed un vicino di casa, testimoniarono come nella stanza vi fosse “un forte ed insopportabile odore di gas”; quindi, se Salvatore Vinci ha ucciso Barbarina, e la bombola era vuota, sia il fratello (cosa che magari non stupisce), sia il padre (cosa che già stupisce un po’ di più) sia il vicino di casa avrebbero dichiarato il falso, affermando che dalla "bombola vuota" fosse uscito tanto gas da rendere "forte ed insopportabile" l'odore nell'ambiente. Lo avrebbero aiutato. Così come compiacenti sarebbero stati il dr Vacca, il dr Zuddas (ufficiale sanitario) ed il medico legale che eseguì l’autopsia dichiarando che sul cadavere di Barbarina non si rilevassero segni di violenza.

In realtà, considerato che:

1) Vi era un biglietto d’addio scritto di pugno da Barbarina

2) L’edificio, nonostante l’odore di gas, non esplose all’accensione della luce

vi sarebbe una spiegazione molto più semplice dell’accaduto. Anche qui, come in altri episodi che fanno parte della vicenda del Mostro di Firenze.

Quando la bombola è in esaurimento e la pressione all’interno scende al di sotto di quella dell’erogatore, non è più garantito il funzionamento dei fornelli ad essa collegati, ma la bombola continua ad erogare gas, sebbene a pressione inferiore. I moderni regolatori tagliano l’erogazione anche in queste condizioni, ma quelli di mezzo secolo fa non possedevano tale caratteristica.

E’ chiaro che la residua quantità di gas non è in grado di saturare un ambiente fino a provocare la morte per asfissia di chi lo occupa, specialmente se vi sono delle fessure che ne consentono la fuoriuscita dal vano; ma diversa è la condizione di chi inali direttamente il gas, respirando dal tubo collegato alla bombola. Inalando solo GPL, bastano un paio di respiri per morire; pertanto, se la bombola è ancora in grado di erogare 2-3 litri di gas, una donna può suicidarsi con due sole inspirazioni. D’altra parte, tale quantità di gas, dispersa nell’ambiente, è più che sufficiente per avvertirne l’odore, ma non perché venga innescata un’esplosione all’accensione della luce.

Barbarina aveva il tubo di gomma vicino alla bocca; ha probabilmente inspirato il gas direttamente da esso, e ciò ne ha causato la morte. E’ certamente possibile uccidere una persona costringendola ad inspirare il gas, ma occorre sopraffarla, e ciò lascerebbe dei segni inequivocabili sia sul corpo sia sul tubo del gas (ad es. segni di morsicatura); occorrerebbe non solo tenere forzatamente il tubo dentro la bocca della vittima, ma tenerle chiuse anche le narici, con le dita, fin quando lo stimolo indotto dall’elevato livello di anidride carbonica nel sangue (tecnicamente si chiama “ipercapnia”) non costringa la vittima ad inspirare. E’ impossibile che ciò non lasci segni evidenti sul viso; ed il rapporto giudiziario a firma Delio Pisano recitava testualmente “A parere dello scrivente il cadavere non presentava segni di violenza visibili esteriormente”, né l’autopsia rivelerà alcuna lesione compatibile con tentativi di sopraffazione.

Posto che esistono modi diversi di provocare la morte di una persona, anche senza eseguire azioni materiali, è evidente che la povera Barbarina, nonostante avesse avuto la possibilità di andar via di casa, e nonostante il bambino rimanesse orfano, per qualche motivo ha ritenuto di dover comunque porre fine alla sua vita. Ma Salvatore Vinci, sebbene responsabile della sua morte, non può essere considerato “assassino”. Salvatore Vinci con Stefano Mele, ha in realtà millantato l’omicidio; cosa che peraltro, considerato l’individuo, non sorprende. Certamente, sarà stato un grande affabulatore, e, nell’esserlo, chissà cosa e come avrà millantato.

Sta di fatto che sebbene egli, nell’idea di molti, sarebbe stato in grado di prendersi gioco di coloro che gli hanno dato la caccia per anni, di seminare in senso di spregio i suoi pedinatori, subito dopo il processo per la vicenda di Barbarina, ha ritenuto di dover trasferirsi all’estero. E nonostante sia stato assolto con formula piena.

E ciò anche se, una volta assolto dall’accusa di omicidio della prima moglie ed il non luogo a procedere per gli omicidi del “Mostro”, si sia manifestato un impegno generale a suo sostegno.

La notizia della sua assoluzione del 1988, infatti, venne riportata da diversi giornali, ma non semplici trafiletti; si parla di articoli a quattro colonne. Uno di essi fu firmato da Ottavio Olita, lucano trapiantato in Sardegna, giornalista RAI e scrittore. Senza dubbio, non un trattamento che viene riservato a qualunque emigrato sardo che viene assolto per un omicidio. Considera, Lettore, che qui non si tratta di un processo che ha avuto chissà quale risonanza mediatica. Non si sta parlando del delitto di Cogne.

In seguito al “non luogo a procedere” per la vicenda “Mostro di Firenze” si mobilitò addirittura RAI2, che gli dedicò un’intera puntata, praticamente celebrativa, di “Detto tra noi”, la serie che dall’anno successivo sarebbe divenuta “La Vita in Diretta”. E proprio da questa trasmissione televisiva, Lettore, giungono, a mio parere, un paio di informazioni interessanti su Salvatore Vinci.

La prima informazione riguarda il luogo in cui si trovi Salvatore Vinci, posto che sia ancora vivo. Vitalia Melis riferì in un’occasione come egli fosse deceduto in Spagna (mi pare a Barcellona – cito a memoria) per una neoplasia epatica, informazione che avrebbe ricevuto dalla seconda moglie. Il giornalista Paolo Cochi avrebbe invece appurato come il Vinci fosse vivo, e residente a Saragozza. L’investigatore (ex carabiniere) Davide Cannella, non sarebbe tuttavia stato in grado di trovare tracce del Vinci a Saragozza; avrebbe avuto notizia di tre “Salvatore Vinci” nell’intera Spagna, di cui due incompatibili per età, ed uno, parrebbe, proveniente dal NordAfrica. Tuttavia avrebbe accertato come almeno una volta il Vinci avrebbe fatto rientro in Italia per un breve periodo, con un volo atterrato a Fiumicino e proveniente da Madrid.

Nella summenzionata trasmissione televisiva “Detto tra Noi” viene, ad un certo punto, chiesto all’avvocato Marongiu, uno degli avvocati difensori di Vinci, dove si trovi Salvatore Vinci ed egli, con atteggiamento reticente, lo colloca, genericamente, “in un paese oltreoceano, nelle Americhe”.

In uno dei video che cito all’inizio del post, e che avrebbero suscitato la curiosità del mio congiunto, viene intervistata l’avvocato Rita Dedola, che sembra fosse appena entrata a far parte dello studio Marongiu ai tempi del processo Vinci. Anche lei riferisce come Salvatore Vinci sia ritornato almeno una volta in Italia, ed in tale occasione si sia recato in studio, per far visita a coloro che lo avevano difeso, insieme alla sua compagna che l'avvocato Dedola ritiene “spagnola” riferendo che di nome facesse “Marisol”. Il nome “Marisol” ha in effetti un'origine catalana, ma é molto diffuso in America Latina; così, il nome della compagna di Francesco Vinci non può essere considerato indicativo della zona geografica in cui egli si fosse trasferito.

Ora, Lettore, così come vi sono voli diretti Saragozza-Fiumicino, vi sono diversi voli che dall’America Latina giungono in Italia via Madrid; ed in America Latina vi sono almeno cinque località denominate “Zaragoza”. Questa è un’informazione che ho trovato interessante. Perché, nonostante le analogie con il personaggio di Pacciani, è la fine che fa la differenza; e questa non è un’”opinione”.

Anzi, proprio questo è l’aspetto che più di ogni altra cosa differenzia Salvatore Vinci da Pietro Pacciani, che li pone agli antipodi: le modalità con le quali i due personaggi hanno lasciato la scena.




Pietro Pacciani é morto in attesa della revisione di un processo che lo aveva scagionato. Francesco Vinci, il fratello di Salvatore, é morto. Assassinato. Salvatore Vinci é stato salvato.

La seconda informazione riguarda un episodio che sempre l’avvocato Marongiu narra sul finire della puntata. Egli riporta come, durante un’arringa condotta in un “tribunale del Nord Italia” per reati di sequestro di persona, fosse costantemente rimasto sotto lo sguardo insistente di una donna, elegante ed attraente, presente nell’uditorio; e, ritenendo che tale interesse fosse suscitato, nella signora, dalla sua persona, si sentisse lusingato. Subito dopo il termine dell’udienza la signora lo avrebbe incrociato in uno dei corridoi del tribunale, fermandolo, e pregandolo di inviare i suoi saluti a “Salvatore Vinci”. Salvatore Vinci, una volta riferitogli l’accaduto, avrebbe semplicemente annuito senza mostrare stupore. Lo stupore, invece, avrebbe colto l’avvocato nel rendersi conto che una donna così di classe fosse tanto interessata al Vinci.

L’episodio è indubbiamente inusuale, ma l’interesse non sta qui. Sempre in uno tre video che hanno incuriosito il mio congiunto, l’avvocato Rita Dedola narra come un giorno, mentre era in studio ed in compagnia dell’avvocato, si fosse presentata alla porta una donna, elegante, affascinante e con un eloquio che denotava una certa cultura, la quale aveva chiesto notizie sull’andamento del processo, si era interessata alla sorte di “Salvatore”, ne aveva parlato come se avesse con il Vinci una notevole familiarità, e gli aveva inviato i suoi saluti.

Da un certo punto di vista, nulla impedirebbe che ambedue gli eventi siano realmente accaduti. Il particolare interessante è però che l’avvocato Marongiu raccontò l’aneddoto all’intervistatore di “Detto tra noi” mentre si trovava all’aperto, seduto ad un tavolino (probabilmente di un bar) proprio accanto all’avvocato Rita Dedola, anche lei interpellata dall’intervistatore; tutto ciò che Rita Dedola disse al riguardo in quell’occasione fu: “ Al processo di primo grado, in Corte d’Assise, al processo per l’omicidio della moglie, il pubblico era prevalentemente fatto di donne, composto di donne, e c’erano molte amiche sue”. Ma nessun accenno all'episodio della signora in studio venne fatto, né da parte dell'avvocato Marongiu, né da parte dell'avvocato Dedola. Vi sarebbe da chiedersi il perché. Così come vi sarebbe da chiedersi il perché nessun accenno all'episodio raccontato da Marongiu venga fatto da Rita Dedola nel video più recente. Come se la menzione dell'uno escludesse quella dell'altro.

Converrai con me, Lettore, che i due racconti darebbero adito a diverse perplessità; quando, la bella signora, avrebbe fatto la sua comparsa? In studio a Cagliari o in tribunale al Nord Italia? Perché durante la trasmissione nessuno accenna alla visita allo studio? Oppure si trattava di due belle signore diverse, ma che non possono essere ambedue menzionate nell’ambito della medesima intervista? A meno che uno stuolo di belle signore non volesse avvalersi dello studio Marongiu&Dedola come mezzo per inviare saluti, è improbabile che due episodi siano contemporaneamente e totalmente veritieri. E’ questo l’aspetto interessante: non c’é “verità”, qui. Nemmeno mostrologica.

Tutt’al più, se qualcosa relativo ai due episodi è realmente accaduto, essi potrebbero costituire, ambedue, due “mezze verità”. Ora, Lettore, ero già a conoscenza della proprietà additiva delle coincidenze ("One coincidence is just a coincidence, two coincidences are a clue, three coincidences are a proof" frase attribuita ad Agatha Christie, anche se nessuno sembra sapere in che occasione la scrittrice l'avrebbe formulata). Riconsiderando la vicenda relativa al “Mostro di Firenze” ho appreso anche dell'esistenza di una proprietà disadditiva delle frazioni di indizio (“mezzo indizio più mezzo indizio non fa un indizio ma zero indizi”) Ciò che ancora, però, non mi é riuscito di comprendere è se la proprietà disadditiva si estenda anche alla verità o meno: mezza verità + mezza verità fa una verità intera? O, come per gli indizi, fa zero verità? E ciò vale per ogni verità, compresa la “verità mostrologica”? L’affermazione, poi, dell’avvocato Rita Dedola riguardo al fatto che Vinci sicuramente qualcosa sapeva é forse meno interessante, in quanto ovvia; ma proprio per questo, totalmente condivisibile.

Quello che sarebbe un po' meno ovvio, ma proprio per questo molto più interessante, sarebbe sapere chi abbia salvato Salvatore... e perché, anche se il perché é forse intuibile.

Detto ciò, Lettore, posso finalmente porre la parola “fine” ad una serie di post su un argomento che, per quel che mi riguarda, considero definitivamente chiuso. E chiudo con le parole di Davide Rossi:

Una cosa che ho… abbiamo notato… cioè, facendo questo lavoro, è che, all’interno degli ambienti investigativi, ma anche gente in quiescenza da… dieci anni, quindici anni, c’è un minimo comune multiplo fra queste persone, che è il seguente: nessuno parla volentieri di questa cosa! E, se ne parla, ne parla a condizione che il suo nome non venga fatto

Se non vogliono parlarne loro, che sono professionisti, avranno di certo il loro motivo. Ed io, Lettore, che invece, da blogger da strapazzo, sono totalmente ignorante, pur senza comprenderlo, lo accetto acriticamente come fosse un consiglio, ed altrettanto acriticamente lo seguirò, per fede.

Come fosse una “verità mostrologica”.

Anche se di recente, mi sono trovato costretto ad aggiungere un post-scriptum.


IL MOSTRO DI FIRENZE, OVVERO LE OPINIONI, PARMENIDE, CARTESIO E LA RICERCA DELLA VERITÀ: Parte V



A novice in the game generally seeks to embarrass his opponents by giving them the most minutely lettered names; but the adept selects such words as stretch, in large characters, from one end of the chart to the other. These, like the over-largely lettered signs and placards of the street, escape observation by dint of being excessively obvious; and here the physical oversight is precisely analogous with the moral inapprehension by which the intellect suffers to pass unnoticed those considerations which are too obtrusively and too palpably self-evident.

Auguste Dupin




Questo, Lettore, è l’ultimo post della serie. Analizziamo brevemente la situazione di questa altra parte; in altri termini, come dice Davide Rossi, discutiamone.

C’era innanzitutto proprio il Lo Bianco, operaio palermitano meno che trentenne, con una moglie e tre figli a carico, e riguardo ai quali nella sentenza Rotella si legge come non versassero in condizioni economiche tanto migliori dei Mele. Però, questo operaio, che come dice Davide Rossi non sarà stato un delinquente, si presentava (al Mele, almeno) con uno pseudonimo, praticava la boxe (o, almeno, si vantava di farlo), poteva permettersi di uscire con l’amante, ed andare in giro con un’automobile che, per quanto acquistata usata, era ancora un’automobile “da professionisti”, non certo da operaio con un carico familiare simile. I soldi per l’acquisto se li era fatti anticipare dal datore di lavoro, restituendoli con trattenute mensili. Se allo stipendio da operaio sottraeva i soldi da restituire, come poteva campare la famiglia? Che ci fossero in ballo altri affari è testimoniato dalla moglie, Rosalia Barranca, alla quale lui avrebbe ventilato la possibilità di avere “una bella casa ed una bella macchina”, e che lei interpretò come volontà del Lo Bianco di entrare nel giro della prostituzione. Sta di fatto che Antonio Lo Bianco riguardo alla macchina possedeva già la Giulietta, ed aveva già cambiato casa, in quanto precedentemente abitava nella casa che poi avrebbe acquistato Stefano Mele. Condizione quantomeno dissonante con quella descritta dal giudice Rotella.

Altro siciliano, parte della comunità, era tale Ignazio Casamento; che però doveva avere una posizione ben diversa se dava lavoro ad altri. Non solo al Mele, ma anche al cognato di Lo Bianco; anzi, fu proprio quest’ultimo ad accompagnare a casa il Mele il giorno dell’omicidio. Mele il quale doveva proprio star male quel giorno se, definito dallo stesso Casamento “buon lavoratore” aveva addirittura sentito la necessità di venire riaccompagnato; chissà chi gli avrà riportato a casa la bicicletta, con la quale, secondo il rapporto Matassino, avrebbe raggiunto sua moglie e l’amante…

E nonostante tale possibilità di contatto (cioè il Mele ed il cognato di Lo Bianco erano colleghi di lavoro), nonché l’altro punto di contatto costituito dalla casa, il Lo Bianco, che con tutto ciò il Mele conosceva come “Enrico”, gli sarebbe stato presentato da un altro siciliano, “Virgilio”, al secolo Carmelo Cutrona, che però lavorava da tutt’altra parte, svolgendo un compito che richiedeva la manipolazione di nitrati, potenzialmente in grado di rendere positiva la prova del guanto di paraffina. Non si capisce bene, dai racconti, né come sia comparso il Cutrona, né perché anch’egli al Mele fosse noto con uno pseudonimo; così come non si capisce perché, considerato che ha sempre negato ogni legame con la Locci, nel pomeriggio dell’omicidio si fosse recato a casa dei Mele chiedendo informazioni, ed assicurando che sarebbe ritornato la sera, cosa che non fece. Nei fatti “Virgilio” sarà l’unico, oltre il Mele, a risultare positivo al guanto di paraffina.

Il c.d. “guanto di paraffina” pochi anni più tardi sarebbe stato sostituito dallo “stub”, in quanto dava un numero elevato di “falsi positivi”. Di solito, Lettore, quando si ha un eccessivo numero di falsi positivi, il test viene considerato poco attendibile perché troppo “inclusivo”, include cioè anche soggetti che dovrebbero essere negativi, e che risultano positivi per motivi che non hanno attinenza con la condizione che si intende rilevare; ne deriva che vengono presi in considerazione anche coloro che invece dovrebbero essere esclusi. Ad un elevato numero di falsi positivi, corrisponde pertanto una bassa predittività del test; in altri termini, nel caso del guanto di paraffina, molte persone che non hanno, in realtà, sparato, verrebbero incluse nelle indagini, i “falsi positivi”, appunto.

Ma qui, su sei persone i positivi erano solo due, Stefano Mele e Carmelo Cutrona; tutti gli altri sono stati esclusi, anche se la positività di Cutrona era puntiforme, bilaterale, ed arrivava ad interessare gli avambracci. Allora io mi sono chiesto, Lettore: se avessi avuto la necessità di risultare insospettabile dopo aver sparato, come mi sarei comportato? Mi sarei lavato le mani fino a consumarmi la pelle, senza alcuna garanzia di rendere veramente negativa una prova che rendeva positivo anche chi non lo era, o avrei esaltato la positività, estendendola addirittura ad ambedue le mani e le braccia, ben sapendo di avere una scusa plausibile (l’attività lavorativa) per una tale positività? Comunque sia, “Virgilio”, dopo guanto di paraffina, perquisizione domiciliare e confronto con il Mele, sparirà totalmente non solo dall’indagine, ma anche dalla circolazione, e mai si saprà né che faccia avesse, né che fine avesse fatto; non ne rimane neanche una foto.  E' possibile che sia stato sottoposto a perquisizione domiciliare dopo Giogoli, ma senza rilevare alcunché a suo carico; né d'altra parte, é detto che debba aver sparato negli omicidi successivi al 1968, e tantomeno, che dovesse detenere presso il suo domicilio qualcosa che lo ricollegasse a tali omicidi. Pertanto, così come era apparso, scompare.

Non così è stato per i cognati del Lo Bianco, fratello e fratellastro della moglie, che resteranno sulla scena anche negli anni successivi. Dovevano senza dubbio essere socievoli, considerato che uno di loro aveva riportato a casa il Mele; tanto socievoli che il Lo Bianco avrebbe voluto andare a cena con loro. Era la moglie che si opponeva; non gradiva che il marito si allontanasse dalla famiglia per troppo tempo, così lo rispedirono a casa, dalla moglie; questo è almeno ciò che sostiene Rotella. Giuseppe Barranca dichiarò invece come loro lo avessero invitato, ma sarebbe stato lui a rifiutare. Neanche qui ci sono certezze; l’unica certezza è che per uscire con Barbara Locci non vi erano ostacoli da interporre.

Inoltre, sembra che il gruppo dei siciliani fosse anche più articolato. C’era chi era vicino di casa dei Mele, lo zio di “Virgilio”… tutti sembrano appartenere ad una comunità meglio strutturata e con una maggiore presenza sul territorio.

Come si è detto prima, qualcuno (almeno a sentire Stefano Mele) era andato a casa Mele a cercare Barbara e, non trovandola, sembrava si fosse alterato; e questi era proprio “Virgilio”. Non ci sono informazioni riguardo ad eventuali reazioni al fatto che la Locci avesse portato con sé Natalino, considerato che Stefano Mele era malato a casa, e quindi Natalino avrebbe benissimo potuto rimanere con lui.

Quindi noi, Lettore, a distanza di mezzo secolo possiamo almeno fare delle considerazioni sulla validità delle alternative alla “pista sarda”, alla luce di quanto scritto in rapporti e sentenze. C’è un gruppo di sardi dalle abitudini (anche sessuali) quantomeno discutibili, che è in contatto non casuale ( rapporti lavorativi, personali) con un gruppo di siciliani, che mostra di essere più strutturato (c’è un imprenditore edile, ci sono rapporti di parentela che sembrano più stretti, etc.).

Nel gruppo dei sardi, c’è qualcuno che si vanta (o millanta) di aver ucciso la moglie ed averla fatta franca.

E’ plausibile che delle persone che avevano avuto il loro vantaggio (anche sessuale) da questa situazione uccidessero la Barbara Locci?

Ma avendo comunque deciso, per qualche motivo di farlo, è pensabile che decidessero di farlo proprio quando era con un’altra persona, uccidendo anche quella?

Ed è pensabile che lo facessero inoltre quando c’era anche il figlio di lei, potenziale testimone, e senza eliminarlo?

Ed è pensabile che il bambino si sia svegliato solo dopo sette o otto colpi di pistola, senza vedere nulla?

E’ pensabile che il gruppo dei siciliani l’avrebbe fatta passare liscia ai sardi, che avevano ucciso uno di loro e fatto tre orfani, senza tentare null’altro? Non dobbiamo perdere di vista il fatto che, se è vero che poi Francesco Vinci avrebbe avuto stretti contatti con l’Anonima Sequestri, è anche vero che la Toscana è una delle regioni d’Italia, escludendo ovviamente la Sicilia, in cui la mafia si sarebbe radicata più stabilente sul territorio prima di ogni altra organizzazione, sarda, calabrese, campana, etc. E Giacomo Barranca, fratello di Giuseppe, era in soggiorno obbligato in Lombardia, misura cautelare di solito adottata per indiziati di attività delittuose connesse alla mafia; appare quanto meno improbabile che un siciliano "in odore di mafia" abbia potuto subire passivamente l'assassinio del cognato senza nemmeno tentare una reazione. A meno che, beninteso, la reazione anziché rivolgersi a "ladri di polli" (come Calamosca definì Francesco Vinci) avrebbe dovuto venire diretta contro qualcosa di più grande, molto più grande di un clan sardo.

Ma su come poi si possa essere giunti da Lastra a Signa alla generazione di tale entità... Newton diceva, a proposito di una spiegazione della forza di gravità, hypotheses non fingo. Io che sono solo un blogger da strapazzo, posso solo dire opiniones non fingo.

Ciò che mi premeva era solo parlarTi un po’, Lettore, di opinioni e verità, prendendo questa pluridecennale vicenda come spunto; se vuoi cimentarti Tu in un’interpretazione di quegli avvenimenti posso solo, come nel caso di Baccaiano, darti due suggerimenti:

1) Sembra che qualcuno si sia adoperato, durante l’intera giornata, per evitare che Barbara Locci ed Antonio Lo Bianco uscissero insieme quella sera o, almeno, portassero con loro Natalino

2) Il gestore del cinema e la cassiera sostennero di non essersi accorti della presenza di Natalino all’ingresso; e questo può anche essere logico in quanto, poiché il film era vietato ai minori, ed il gestore poteva temere per la sua licenza. Una cassiera dirà di averlo notato all’uscita; secondo Mario Spezi, almeno.Però, anche Natalino, in tutte le testimonianze rese da adulto, riferirà di non ricordare di essere stato al cinema; e anche Stefano Mele, nonostante quanto affermi Cecioni, che farebbe bene, anche lui, a porre più attenzione nel leggere la sentenza Rotella, dichiarerà esplicitamente “di non aver mai visto sporgere la testa di Natalino dal sedile, attraverso il lunotto posteriore” durante il pedinamento

Potrei anche darTi qualche spunto di riflessione: la Barbara Locci aveva stipulato un'assicurazione sulla vita con Stefano Mele quale beneficiario; va da sé che se Stefano Mele fosse risultato l'assassino di Barbara Locci, non sarebbe stato liquidato. Così come, nei fatti, non lo fu. Questo, tra l'altro, renderebbe poco consistente l'ipotesi di chi vuole ancora vedere nel delitto del 1968 una motivazione economica e con essa il persistere della validità di una "pista sarda"; l'assicurazione sulla vita della Locci avrebbe consentito di riscuotere ben più della cifra che certe ipotesi vorrebbero alla base del movente dell'azione omicidiaria, ma l'ultima cosa da fare, volendo riscuotere la cifra per la morte dell'assicurata, sarebbe stata quella di individuare Stefano Mele come colpevole.

Invece, cosa fu fatto? Ci si adoperò, anche attivamente (vedi Mucciarini), affinché Stefano Mele confessasse. In altri termini, Barbara Locci sarebbe stata uccisa e Stefano Mele  sarebbe stato accusato del delitto non a causa di interessi economici, quanto piuttosto nonostante gli interessi economici.

Ora, Lettore, se l’assassino si fosse annidato tra i sardi, ma non fosse stato Stefano Mele, la confessione del Mele sarebbe stata funzionale al raggiungimento di un fine più elevato, prioritario rispetto al denaro, e cioè l’incriminazione del Mele per scagionare il vero assassino. Ma, se si era tanto tribolato per raggiungere tale fine, qual era il senso della segnalazione agli inquirenti, con il ritaglio di giornale, dopo Baccaiano?

Ma mi rendo conto di come io mi sta spingendo troppo in là, invadendo campi che non mi competono oltrepassando il confine tra blogger e mostrologo, tra opinione e verità; è meglio che termini qui il ragionamento per ritornare a quello che costituisce il reale argomento, l’oggetto della serie.



RITORNIAMO FINALMENTE A OPINIONE E VERITA’

Come è stato sottolineato prima, il primo assioma pretende che il Mostro sia unico, a causa delle difficoltà nell’immaginare come diversi individui possano condividere un simile passatempo. Ma esistono, ad esempio, gli stupri di gruppo. Potresti obiettare, Lettore, che uno stupro di gruppo non sia la stessa cosa di omicidio di gruppo. E' indubbiamente vero. Non lo é esattamente nella stessa misura in cui un omicidio di gruppo non é uno stupro di gruppo. Che tipo di spiegazioni “tecniche” avrebbe potuto fornire Mario Spezi a questo? Riprendiamo un momento la “verità” di Mario Spezi. Quale sarebbe il principio inconfutabile per il quale “Una malattia mentale di quel genere non si condivide, non si delega a nessun altro” mentre gli stupri si condividono? Ah già, dimenticavo che anche Mario Spezi era un mostrologo e, come tale, depositario della Verità per definizione; oppure era un’evidenza di fatto a cui Spezi voleva riferirsi? Il fatto che gli stupri di gruppo siano un’attività ricreativa frequente, e gli omicidi non lo siano?

Vi sono stati nella Storia innumerevoli esempi che hanno visto individui godere, in senso letterale o metaforico, della sofferenza altrui. Basti pensare alle decapitazioni dell'ISIS; qualcuno ha mai preso in considerazione la possibile esistenza di "tracce biologiche" nelle mutande di chi stava decapitando un suo simile straziandolo con un coltellino?

E se poi il movente principale dell’azione omicidiaria dovesse essere rappresentato dall’esercizio di un potere sulle vittime, dalla costruzione di un personaggio inafferrabile, e dalla sfida alle istituzioni, in base a quale principio un simile movente non potrebbe essere condiviso?

E d’altra parte, è esplicitamente previsto, in molte classificazioni attuali, la possibilità che gruppi di tre o più persone (superando così la limitazione imposta dalla folie à deux menzionata da Filastò) possano commettere omicidi seriali, addirittura con una composizione “fluida” del gruppo, in cui la presenza partecipativa dei vari componenti non sia costante. Ruben De Luca denomina tale categoria come “Omicidio seriale a numero variabile”, e la menziona nell’ambito di una classificazione che prevede anche l'esistenza di serial killer singoli, a coppie, o in numero di tre o più ma con componenti fissi. E riguardo alle motivazioni, o alla tipologia organizzativa, i criteri sono altrettanto vasti.

Tanto vasti, Lettore, che queste, più che essere “classificazioni” si risolvono in “descrizioni” che enfatizzano solo l’estrema variabilità che contraddistingue gli esseri umani. Sarebbe come dividere gli individui in base all’altezza: nella media, superiore alla media, inferiore alla media, e poi con i capelli neri, biondi, o di tutte le gradazioni intermedie, indi la corporatura, il colore degli occhi, etc. Alla fine, ciò non ha alcun contenuto informativo, individua una miriade di singolarità di cui ognuno ha una combinazione peculiare di caratteristiche che lo rendono unico, cosicchè non possa venire accomunato ad altri in alcun gruppo specifico.

Se poi ci rivolgiamo a patologie psichiatriche o ad atteggiamenti psicologici, le cose vanno ancora peggio.

Ormai le patologie psichiatriche sono non solo classificate, ma persino individuate tramite criteri soggettivi senza la benché minima garanzia di oggettività; rispecchiano convinzioni personali, non evidenze scientifiche.

La vita di relazione degli esseri viventi si esplica attraverso una serie di funzioni complesse, composte da una serie di subfunzioni, più semplici; e l'essere umano non fa eccezione. L'alterazione di una di tali sottofunzioni altera la macrofunzione che concorre a costituire, facendo comparire l'anomalia. Le subfunzioni non sono conosciute nei dettagli fisiologici, e così é attualmente impossibile differenziare le varianti normali dalle alterazioni patologiche, o stabilire a che risultato possa portare l'alterazione di una subfunzione.

Il DSM (o qualunque altra classificazione equivalente) non ha pertanto alcun mezzo, scientifico ed obiettivo, per stabilire cosa sia normale e cosa non lo sia; i suoi contenuti sono verità nella stessa misura in cui é vera una "verità processuale", o falsi nella stessa misura in cui sono "fantasiose" quelle che vengono ritenute "assolutamente non veritiere" da un blogger/youtuber. I contenuti del DSM sono equivalenti alla verità mostrologiche, alla "verità romana" di Odifreddi. Ad essi bisogna credere per fede; qualunque valutazione costruita sui suoi principi, scientificamente non ha valore. Matematicamente men che meno. Fare affidamento su simili parametri per stabilire se l'entità "Mostro di Firenze" sia costituita da uno o più individui, e quali relazioni intercorrano tra di esse, é come pianificare un viaggio in una regione lontana e poco conosciuta basandosi sull'oroscopo; tu lo faresti, Lettore? Eppure, c'é chi lo fa...

In generale, molto in generale, considera che il ritenere (senza fare riferimento a parametri oggettivi, intendo) “patologico” il comportamento di certi individui nasce dall’ovvia constatazione di non poter ricondurre a schemi razionali il loro comportamento; se io sono “normale” non posso razionalmente immaginare ciò che succede in una situazione nella quale si muove un soggetto “patologico”. I suoi pensieri, le sue azioni e le sue reazioni nascono in una mente diversa dalla mia, e quindi non li posso ricondurre agli stessi schemi che la mia mente seguirebbe, seppur in una situazione analoga.

Se io ad esempio cerco di immaginarmi mentre mi preparo alle escissioni con il coltello, mi immagino mentre valuto l’ambiente circostante, la possibilità di essere visto, di lasciare tracce, etc.; ma solo perché per me praticare le escissioni sarebbe una decisione razionale, per cui tutto il resto deve adeguarsi a tale razionalità.

Allora, cerco di aggirare tale ostacolo considerando l’individuo “patologico” ed affermando che, nell’impossibilità di immaginare personalmente gli impulsi che lo guidano e gli schemi che egli seguirebbe, faccio riferimento ad una patologia. Ma il comportamento “patologico” inteso in tal modo è altrettanto codificato, nella misura in cui si discosta dal comportamento che per definizione ritengo "normale", e pertanto la sua applicazione all’individuo rimane un’attività assolutamente razionale. Se razionalmente applico ciò che altri individui normali hanno, peraltro arbitrariamente (come nel caso del DSM) stabilito, ho solo spostato i termini del problema, senza alcuna garanzia che il mio “profilo” possa essere corretto, o almeno verosimile.

La mia “verità” resterà comunque una verità di fede, una “opinione” nobilitata dai riferimenti al testo sacro rappresentato dal DSM. E vorrei tenessi presente che ciò che penso sul DSM (e tutto ciò che ad esso collegato) sarà anche “opinone” mostrologicamente parlando, ma è ampiamente condivisa. Ad esclusivo titolo di esempio (e per il principio per cui un esempio vale più di mille parole) Ti riporto lo scambio di battute avvenuto nel 2010 tra lo psichiatra americano Daniel Carlat e Robert Spitzen, presidente del comitato che aveva curato la redazione del DSM III nel 1980, riguardo a come fosse stata individuata la soglia di cinque criteri per poter porre la diagnosi di “Depressione”:

Carlat: “How did you decide on 5 criteria as being your minimum threshold for depression?

Spitzer: “It was just consensus. We would ask clinicians and researchers, ‘How many symptoms do you think patients ought to have before you give them a diagnosis of depression?’ And we came up with the arbitrary figure of five.

Carlat: “But why did you choose five and not four? Or why didn’t you choose six?

Spitzer: “Because four just seemed like not enough. And six seemed like too much.

Se lo preferisci, Lettore, posso tradurti lo scambio di battute:

Carlat: “Come avete fatto a decidere che il numero minimo di criteri per porre diagnosi di depressione dovesse essere pari a cinque?”

Spitzer: “Solo tramite consenso. Chiedendo a diversi clinici e ricercatori: ‘Quanti sintomi ritenete che un paziente debba presentare prima di formulare una diagnosi di depressione?’ E così siamo giunti ad un valore di cinque”

Carlat: “Si, ma perché avete scelto proprio cinque e non quattro? O piuttosto sei?”

Spitzer: “Solo perché quattro non ci sono sembrati abbastanza. Mentre invece sei ci sembravano troppi”.

Ed un principio analogo venne applicato per la “derubricazione” dell’omosessualità: una votazione, cioè l’espressione di pareri soggettivi ed individuali sull’argomento. Se io mi ritengo, per definizione "normale" ed ho determinate inclinazioni, non posso vedere nulla di "patologico" in chi ha le stesse mie inclinazioni.

In questo modo, Lettore, noi possiamo far scomparire, per definizione, vecchie patologie così come farne comparire di nuove a nostro piacimento; questo cambia sicuramente la nostra descrizione della realtà, ma non cambia in alcun modo la realtà stessa. Evito qui di usare l'esempio del dito e della Luna, solo perché abusato, e spesso a sproposito.

Ed ancora più incerto rimane il terreno su cui si muove la Psicologia. Vedi, Lettore, il fatto che le Scienze Biologiche (Medicina, Biologia, Veterinaria…) non siano scienze esatte, è indubbio; nondimeno, esse permangono “scienze”, potendo applicare ad entità oggettive un metodo scientifico, sebbene non un modello matematico. La Psicologia apparterrebbe alle Scienze Sociali, nelle quali diviene molto più labile l’applicazione di un metodo scientifico; ma soprattutto manca l’esatta delimitazione dell’elemento oggettivo. Questo rende, nei fatti, vano ogni proclama della “psicologia scientifica”. Disquisire su questo aspetto qui diviene troppo lungo e complesso, prolungando ulteriormente (ed inutilmente) dei post che nell'idea originaria avrebbero dovuto essere ben più stringati; può risultare illuminante al riguardo, però, l’articolo comparso sulla rivista Science: “Estimating the reproducibility of psychological science Science 2015 Aug 28;349(6251)”. Un riferimento più sintetico, ed in italiano,può invece essere costituito dall’articolo liberamente disponibile sul Web “Umberto Galimberti e la psicologia come non-scienza”. Più in generale, sebbene si voglia fare risalire a Wundt l’invenzione di una psicologia “scientifica”, i concetti sui quali si basa la riferimento più classico di tale concetto è trattato nei dettagli nel celebre saggio di Karl Popper “Conjectures and Refutations. The Growth of Scientific Knowledge”, che risale al 1963, ma che origina da analisi che Popper cominciò a condurre già nel 1913. Essenzialmente si basano sulla “non falsificabilità” (si era già accennato, nel primo post dedicato alla Verità ed al Mostro, al concetto di come la “falsificabilità” fosse una qualità positiva della Scienza) delle pseudoscienze, che deriva dal fatto di poter adattare alla bisogna i loro paradigmi alle osservazioni. E la possibilità di definire la realtà sulla base di definizioni, e pretendere di cambiare la realtà cambiando al volo, se necessario, tali regole é esattamente ciò che accade con il DSM. O la contrapposizione tra la verità del mostrologo e l'opinione dell'uomo comune.

Per avere anche solo un’idea di quanto siano proteiformi ed indefinibili i contorni che definiscono le entità sulle quali la Psicologia pretende di condurre ricerche scientifiche è sufficiente considerare, per quel che riguarda l’entità “coscienza”, l’introduzione del saggio, peraltro ottimo ed affascinante, di Julian Jaynes dal titolo:

THE ORIGIN OF CONSCIOUSNESS IN THE BREAK DOWN OF THE BICAMERAL MIND, pubblicato in italiano da Adelphi con il titolo “Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza


Una sola persona con le caratteristiche di una moltitudine
 
Ma poiché il mio spazio, ma soprattutto la Tua pazienza, Lettore, si approssimano ormai al termine, in questa sede non posso che concludere limitandomi a mostrarTi queste tabelle tratte da:

Sexual Homicide: Patterns and Motives Robert K Ressler, Ann W Burgess, John E Douglas e che sono state riprese da diversi autori italiani, come Picozzi e Zappalà o lo stesso De Luca

Su di esse ho indicato le caratteristiche mostrate dall’entità “Mostro di Firenze” che non consentono di classificare il Mostro come “organizzato” o “disorganizzato” ; come vedi alcuni elementi caratterizzano una tipologia mentre altri, pur presenti nei delitti del Mostro, caratterizzerebbero la tipologia opposta.






Facendo fede a tali tabelle, l’entità “Mostro di Firenze” non potrebbe essere riconducibile ad una singola tipologia di omicida, e pertanto difficilmente potrebbe essere costituita da una sola persona.

Uno degli autori italiani, però, si affretta a precisare come la dicotomia creata dall’FBI non sia così netta “in quanto la maggior parte degli assassini seriali, così come gli esseri umani in generale, presentano elementi di organizzazione e disorganizzazione, miscelati in una gradazione variabile da soggetto a soggetto

Persino Davide Rossi, che pure ha condotto un lavoro di gruppo pregevole, è costretto a descrivere il suo uomo come qualcuno che sappia maneggiare le armi, che sappia muoversi con sicurezza, che sia in grado di costruire doppi fondi sulle automobili e riverniciarle, che faccia diversi sopralluoghi diurni e notturni nella zona dove colpirà, che sappia come eludere i posti di blocco, che sia consapevole delle trappole tese dagli investigatori, che riesca a non farsi mai individuare, che abbia un atteggiamento insospettabile, che pianifichi nei particolari ogni aspetto dell’omicidio, dall’occultamento della propria vettura alla via di fuga, che possa avere un rifugio, etc.…

E ritengo che Davide Rossi abbia condiviso, almeno in parte, la profilazione con Emanuele Santandrea che, in più, attribuisce al Mostro di Firenze notevole forza fisica, vista e udito eccezionali, capacità di muoversi al buio, capacità di orientarsi con le stelle, capacità di uccidere a mani nude, sceglie le vittime… questo, Lettore, non è il ritratto di uno psicopatico. Questo è Diabolik.

Che una sola persona possa fare ciò non è assolutamente impossibile; nondimeno, resta improbabile. Ci sono persone che da sole riescono a spostare, tirandoli con delle funi, persino dei TIR, ma sono casi eccezionali; fra loro Björnsson, in grado di sollevare da terra 500 kg. Però Lettore, se tu entrassi in un locale dove non c'é alcun sollevatore, e ti rendessi conto che un motore ad otto cilindri comprensivo di trasmissione è stato sollevato da terra e poggiato su un supporto, quale spiegazione riterresti più probabile? Che sia stato spostato con la collaborazione di più persone, insieme, o che sia Björnsson che passava da quelle parti? E se questo fosse avvenuto ben sette volte? Non ti apparirebbe quantomeno improbabile?

Eppure, i vari profiler (di Quantico in primis) continuano a sostenere con sicurezza l’unicità dell’autore, e lo fanno avvalendosi di “strumenti” che non sono in grado di garantire sicurezze di alcun tipo. Discutere su queste basi può mai portare a conclusioni?

Chiunque abbia preso in considerazione le possibili spinte che hanno condotto a questa serie omicidiaria, è giunto a conclusioni diverse; si spazia dal lust murder all’omicidio su commissione di sette sataniche, passando per terrorismo di destra e servizi segreti. E ciò nonostante i mirabili strumenti messi a disposizione dalla Moderna Criminologia.

Perché, Lettore, qui non si tratta solo di un insuccesso investigativo e giudiziario; si tratta soprattutto del fatto che ci si avvale di tecniche ammantate di un’aura di scientificità, ma che non sono nemmeno in grado di generare un ipotetico profilo condiviso da tutti, che possa mettere tutti d'accordo.

Niente punti fermi, niente basi oggettive, niente verità scientifica, solo valutazioni personali, tutte discordanti; valutazioni personali discordanti che però, non appena declamate da un Mostrologo, assurgono al rango di verità assoluta. Il resto sono “ipotesi fantasiose”, “scorie” o nel migliore dei casi, “opinioni”.

Vi sarebbe da chiedersi cosa abbia generato il primo assioma, relativo all’unicità del Mostro. E’ mia opinione (non in senso mostrologico, ma nel senso dato al termine dalle persone normali) che il processo dei “compagni di merende” abbia avuto una grande parte nel generare una sorta di reazione tra i mostrologi, che fa vedere loro l’ipotesi delle più persone come fumo negli occhi. Ma una parte ben più grande, sia presso i mostrologi, sia presso alcuni inquirenti, deve aver giocato il criminal profiling. Per quanto riguarda poi gli inquirenti, ritengo vi sia un’altra componente, cruciale, che sembra aver impedito loro di vedere ciò che era macroscopico; ma poiché il mio spazio ed il mio tempo volgono al termine, non vi é alcuna possibilità di accennarne.

Così, Lettore, sono costretto a terminare qui, scusandomi con Te per l'eccesso di punti interrogativi che ho usato prima, al termine delle mie frasi. Ripongo l'entità "Mostro di Firenze" nel dimenticatoio dal quale l'avevo tratta, e torno alla mia attività di blogger di strapazzo; lascio ai mostrologi vecchi e nuovi l'onere di continuare a rivelare tutte le verità passate presenti e future, augurando loro buona fortuna. E senza darsi troppo fastidio l'un l'altro: se si organizzano a dovere, c'é spazio per tutti, ed ancora ce ne sarà per anni.

Prima di terminare, però esprimere un ultimo pensiero, che riguarda le vittime piuttosto che gli assassini o sedicenti tali… se i bossoli ed i proiettili fossero davvero stati sostituiti, ciò significherebbe solo che l’arma usata per l’omicidio Lo Bianco-Locci non era quella del Mostro di Firenze; ma era comunque una calibro 22 semiautomatica.

Quindi, nel 1968 una coppia appartata, di cui l’uomo era un palermitano, sarebbe stata uccisa a colpi di calibro 22 semiautomatica, che non è quella del Mostro, il portafogli di lui non è gli stato trovato addosso, è stato invece rovistato nella borsetta di lei, ma senza prendere i soldi, e non sono state inferte coltellate, né è stata mutilata… perché quanto accaduto nei pressi del Serchio, nel lucchese, sedici anni dopo, è stato interpretato come una rapina finita male? Perché sul fondello dei bossoli non c’era una “H”? Ma, come ho detto prima, Lettore, opinones non fingo.



CORAGGIOSO IL MERCOLEDI'

Ma se, per caso, animato da velleità letterarie, avessi voluto dare libero sfogo alla mia fantasia, per scrivere, ad esempio, un romanzo senza alcuna base reale, come l'avrei fatto?

Be', con ogni probabilità l'avrei intitolato "Coraggioso il mercoledì", e la trama, in grandi linee, sarebbe stata simile alla seguente; tengo a ribadire come l'origine totalmente fantasiosa di essa sia mostrologicamente certificata, sebbene in qualche modo aderente a quanto riportato a pag. 19 di Servizi segreti italiani. 1815‐1985 del gen. Ambrogio Viviani:

Nel secondo dopoguerra, in seguito alle conferenze di Teheran, Jalta e Potsdam, si determinò una situazione di conflitto latente tra l'Unione Sovietica ed il blocco occidentale, del quale facevano parte gli USA, che avrebbe dato luogo alla cosiddetta "guerra fredda".

Nell'ambito di tale situazione. gli USA si adoperavano attivamente in Italia affinché eventuali legami, politici e non, con l'Unione Sovietica, venissero inibiti; tale attività veniva eseguita, in maniera del tutto ufficiosa, tramite certi apparati statali, che spesso facevano ricorso ad organizzazioni di tipo politico o di tipo criminale.

D'altra parte, in certe regioni d'Italia, gli americani, sempre perseguendo un fine anticomunista, avevano contatti diretti con ambedue le tipologie di organizzazione già da prima della fine della guerra.

Negli anni della contestazione giovanile, qualcuno, che in qualche modo faceva da tramite tra alcuni apparati statali e certe organizzazioni criminali, decide di fare il salto di qualità. Per quanto sommariamente addestrato, non é un militare, quanto piuttosto una via di mezzo tra un infiltrato ed un informatore, sul libro-paga dell'organizzazione ed a cui, come d'uso in simili casi, viene assegnato uno pseudonimo; ma ad un tratto ritiene di poter ricavare un ulteriore utile dalla sua posizione o vendendo informazioni o minacciando di farlo, ma ponendosi comunque in una "posizione contrattuale" diversa, meno subordinata. Inoltre, fa il gradasso, mettendosi in mostra ed usando lo pseudonimo anche quando non dovrebbe.

Un ufficio, parte degli apparati statali, ne decide pertanto l'eliminazione, che deve avvenire senza destare sospetti; affidando l'operazione ad un'apposita squadretta, messa insieme per svolgere tale servizio .

I tempi sono piuttosto stretti e per una serie di fatti contingenti non risulta possibile organizzare un falso incidente, così la squadretta é costretta a ricorrere ad un omicidio; si presenta l'occasione di poter fare apparire l'omicidio come un "delitto d'onore", e per questo si sceglie una calibro 22, arma adatta alla messinscena.

L'incolumità di un minore coinvolto suo malgrado nella vicenda, viene contrattata barattandola con una confessione di colpevolezza di qualcuno, che suggelli definitivamente l'episodio e storni i sospetti escludendo così, pur in presenza di numerose zone d'ombra, altre possibili interpretazioni in chiave diversa. Un reo confesso é una garanzia di successo; ed infatti l'episodio viene archiviato come banale fatto di cronaca. D'altra parte, il reo confesso sarebbe proprio il padre del minore, cosicché il fatto che quest'ultimo venga risparmiato corrorebbe la sua confessione.

Trascorre qualche anno, che reca con sé anche qualche sovvertimento politico, uno dei quali coinvolge, anzi travolge, pure (o soprattutto) l'ufficio che si era occupato della summenzionata vicenda; anzi, l'ufficio viene addirittura chiuso, smantellato. Chi occupava posizioni verticistiche viene inviato altrove, ufficalmente, come sempre accade in simili casi, per un avanzamento di carriera, ma la realtà é che deve essere rimosso per motivi politici; mentre i gruppi operativi di base transitano nelle nuove strutture. Così, la nota squadretta passa, almeno formalmente, alle dipendenze di nuovi direttori; ma nella sostanza, suoi componenti rimangono uniti.

I quadri intermedi, senza la guida dei capi, che consideravano a tutti gli effetti dei punti di riferimento e dai quali erano protetti e sostenuti, pianificano, di concerto con i componenti della squadretta, un'operazione finalizzata a gettare discredito sui nuovi arrivati, sulle strutture che questi gestiscono, per nuove o rinnovate che siano, e conseguentemente sui loro referenti politici.

In altri termini, l'operazione, da condurre, da parte della nota squadretta, con pochi scrupoli, deve mettere in palese difficoltà il nuovo
establishment, dimostrandone l'inefficienza e generando un perenne stato di insicurezza nella cittadinanza; e tutto ciò con il beneplacito dei quadri intermedi. Ciò anche perché il nuovo establishment ha posizioni più morbide verso certe correnti politiche precedemente avversate.

L'intero piano prende ispirazione da un
format ben conosciuto dalla squadretta, ma con l'importante variante che mentre nel piano originale era fondamentale che l'azione avesse meno risonanza possibile, per non destare sospetti, qui invece l'obiettivo da conseguire é la massima risonanza possibile.

Di conseguenza, se prima l'era necessario assicurare subito un colpevole alla giustizia, così da distogliere immediatamente l'attenzione dell'opinione pubblica, ora deve essere perseguito il fine esattamente opposto, cioè impressionare l'opinione pubblica senza la possibilità di individuare un colpevole, mantenendo la cittadinanza nell'incertezza e screditando chi dovrebbe, a livello istituzionale, risolvere il problema.

Chiaramente, in accordo al
format originale, l'arma più adatta sarebbe stata di un tipo non lontanamente assimilabile ad quelle usate in ambito militare, o dalla criminalità organizzata; una calibro 22, che potesse più facilmente essere in possesso di un cittadino comune, risultava l'arma più adatta. Viene così creata un'arma fittizia, inesistente, e quindi impossibile da individuare, esplodendo due intere scatole di cartucce Winchester LR22 con una semiautomatica Beretta, a canna corta, e conservandone i bossoli. La Beretta viene poi distrutta.

Poiché l'arma é adatta alla rappresentazione, ma inadeguata alla bisogna, si supplirà alle deficienze con arma da taglio, assicurandosi che nessuna delle vittime sopravviva. Ciò potrà fornire inoltre quell'impatto emotivo che impressioni l'opinione pubblica, cosicché gli eventi restino ben impressi.

La scelta delle vittime avviene anche su base "politica"; da un lato essa segue le direttive dell'ufficio originale, dall'altro si configura anche come una sorta di risposta verso i responsabili dello smantellamento dell'ufficio stesso. Esse in effetti vengono uccise con una calibro 22, ma i bossoli non vengono lasciati sul posto, ed in luogo di essi vengono sparsi quelli messi da parte appositamente per il progetto. Si procede quindi ad una forma volutamente impressionante di vilipendio di cadavere.

Il risultato ha certamente un grosso impatto emotivo; tuttavia le interpretazioni della stampa e della collettività non sono univoche. Sebbene l'azione risulti indubbiamente impressionante, non é perfettamente chiaro quale possa esserne il movente.

Trascorre qualche tempo, e nell'area interessata dall'operazione, avviene qualcos'altro: ai vertici di apparati istituzionali locali viene nominato qualcuno che ha uno strettissimo legame con il diretto responsabile, il "mandante" dello smantellamento dell'ufficio operato qualche anno prima. Ed inoltre, questo qualcuno ha già assunto posizioni eccessivamente dure con qualche rappresentante delle organizzazioni politiche che finora avevano agito di concerto con gli apparati statali.

Le operazioni vengono allora replicate, ma con una minore attenzione alla tipologia delle vittime, ed una maggiore attenzione al dettaglio sensazionalistico. Le modalità di vilipendio del cadavere vengono variate in corso d'opera, anche in dipendenza dai componenti della squadretta, che non sono sempre tutti presenti; in un caso,un escissore troppo zelante giunge ad esporre addirittura le anse intestinali di una delle vittime. Inoltre, dopo qualche episodio uno dei componenti fondamentali della nota squadretta, in posizione di supervisore, viene meno, ed in seguito a ciò l'azione diviene ancor più disomogenea e, in qualche caso, pasticciata; ed anche a ciò occorre porre rimedio.

Vi é comunque una evidente difformità nel modo in cui ogni singola operazione é condotta; ma l'analisi dei reperti balistici gioca un ruolo fondamentale, evidenziando comunque una continuità di agente dei crimini; lo stratagemma della Beretta ha funzionato, e nell'ambito giornalistico o degli inquirenti si cercano giustificazioni delle difformità tra i vari eventi salvaguardando il principio dell'identità dell'arma, che diviene automaticamente "identità di agente".

Tale identità costituisce l'unica base di organizzazione delle indagini; d'altra parte, però, ciò contribuisce a far divenire un po' più concitata l'azione, e senza andare tanto per il sottile. Questo perché non appena qualcuno viene arrestato per i delitti, il gruppo deve intervenire con un nuovo evento.

E ciò evidentemente non per "scagionare" il presunto colpevole e nemmeno per "intestarsi i delitti", ma per la ragione, molto più banale, che l'arresto dell'autore del crimine farebbe ritenere all'opinione pubblica che il problema sia stato risolto, dando alla popolazione un rinnovato senso di sicurezza nonché un'immagine di efficienza delle forze dell'ordine smorzando al contempo le paure della cittadinanza, ambedue effetti contrari a ciò che si intende conseguire. Pertanto, ad ogni arresto deve corrispondere un'azione che mostri come in realtà il pericolo non sa cessato e le istituzioni abbiano ancora una volta fallito. Ma soprattutto, occorre scongiurare il pericolo che chi sa, parli; se viene arrestato, occorre grantirgli che venga rimesso in libertà in cambio del silenzio. Se in galera, sotto pressione, decide di parlare, le minacce potrebbero non essere più sufficienti.

La squadretta gode, come già accennato, di protezione locale, garantita da chi occupava, ed occupa ancora, posizioni intermedie, ma é rimasto legato politicamente ed ideologicamente, ai vecchi capi caduti in disgrazia ed ad essi fedeli. Le azioni restano in realtà, se non proprio maldestre, almeno poco curate nei particolari: il numero dei bossoli e dei colpi esplosi non coincide e ciò rende le dinamiche impossibili, il vilipendio del cadavere é incostante nella tipologia, ed a volte é assente, a causa della variabilità nei componenti del gruppo, le escissioni sono "asettiche" e non mostrano una chiara pulsione sessuale alla base di esse, in quanto "teatrali" etc.

Può accadere che qualcuno dei componenti del gruppo venga avvistato nei pressi del luogo dell'operazione; o che possa addirittura essere vista l'intera squadretta in azione o nelle immediate vicinanze temporali di questa. E ciò perché il teatro dell'azione può avere delle frequentazioni notturne da parte di individui che, nonostante le precauzioni prese (allontanamento di possibili testimoni, scelta di notti non illuminate dal chiarore lunare, che permetterebbe di cogliere movimenti di persone anche da una certa distanza) si imbattano accidentalmente negli eventi. In questo caso, il collaudato sistema della minaccia dell'uccisione dei figli riesce a far tacere gli inaspettati testimoni senza dover ricorrere ad ulteriori omicidi, che aumenterebbero i rischi di essere individuati, compromettendo inoltre non solo l'operazione, ma soprattutto l'apparato da cui essa ha origine.

L'identità dell'arma riesce però a rimediare a tutte le manifestazioni di pressapochismo; tutto ruota intorno alla fantomatica Beretta, cosìcché si ritiene di dover trovare giustificazione ad ogni incongruenza ricorrendo a spiegazioni che in alcuni casi giungono fino alle più inverosimili fantasie. Esse alla fine generano una sorta di "Superman" agile, forte, abile, ben addestrato che riesce ad aggirare le trappole poste in essere dalla polizia facendosi beffe degli inquirenti. E tutto questo nonostante vi siano una serie di "suggestioni" che indichino, con pochi dubbi, come nella vicenda siano coinvolte più persone, ed esse abbiano accesso a delle informazioni che sarebbero più alla portata di qualcuno vicino alle istituzioni che di Superman.

L'ultimo atto é l'invio di proiettili e lembi di cute alla parte avversa, azione che rasenta il dileggio proprio per sottolinearne l'inadeguatezza e gettare il massimo del discredito sul loro operato.

Ed é l'ultimo atto proprio perché la situazione evolve ancora; le persone cambiano nuovamente; e la necessità di certe operazioni, peraltro terribili, viene meno. Esse non hanno più alcuna giustificazione.

E con il cambiare delle persone, anche gli assetti degli uffici evolvono ulteriormente. Tanto che se prima, all'interno di qualcuno di essi, c'era chi si fosse posto il problema, avanzando ipotesi riguardo a gruppi di persone potenzialmente responsabili di questi crimini, successivamente l'ulteriore evoluzione conduce alla sparizione delle ipotesi precedenti ed alla generazione di nuove, che fungano da schermo suffragando l'ipotesi di un killer unico. Anzi, viene addirittura scritto un romanzo, che sebbene di poco successo, avrà una ristampa; in esso, nel quale si tenta di far convergere ogni singolo evento attinente alla vicenda, viene fornita una spiegazione verosimile dell'accaduto, assolutamente coerente con l'ipotesi di un killer unico, e che, strizzando l'occhio agli indizi raccolti nella vita reale, sembra voler suggerire qualcosa. Qualcosa di diverso da ciò che é realmente accaduto, ovviamente, stornando l'attenzione da possibili, più veritiere, ipotesi.

Né alcuna prova inequivocabile potrà mai trovarsi al riguardo. E' infatti nello stile dell'ufficio da cui tutto ha origine, pur non potendo evitare di lasciare qualche indizio, compiere determinate operazioni senza che ne rimanga la benché minima traccia documentale.

Alla fine, una volta spento l'incendio, occorre recuperare dalle ceneri ciò che si può, rimediando, per quanto possibile, il danno che le istituzioni, messe in difficoltà da questa vicenda, hanno patito. Così, con la stessa disinvoltura e la stessa mancanza di scrupoli con la quale quella che, bene o male,  una parte dello Stato aveva perseguito i suoi fini ammazzando quindici innocenti, un'altra parte dello Stato commina senza esitazione pene gravissime a persone altrettanto innocenti. O distrugge le loro vite.


Ed al termine di quest'ultimo atto, nient'altro di nuovo sembra più accadere ed il romanzo finisce; mi duole, Lettore, ma non ho trovato modo di far rientrare le "morti collaterali" nella trama. Sembra non esserci posto per loro. Con l'unica possibile eccezione rappresentata dalla morte di Francesco Vinci.

Ti lascio con quest’ultima, banale, considerazione.


IL MOSTRO DI FIRENZE, OVVERO LE OPINIONI, PARMENIDE, CARTESIO E LA RICERCA DELLA VERITÀ: Parte IV



I saw it as a perfect mosaic, each person playing his or her allotted part. It was so arranged that, if suspicion should fall on any one person, the evidence of one or more of the others would clear the accused person and confuse the issue.

Hercule Poirot




Avendo verificato come, al di là delle dogmatiche verità mostrologiche, non possa, in alcun modo, essere ragionevolmente escluso che l’unicità dell’arma usata nel delitto di Lastra a Signa nel 1968 e per i delitti del “Mostro di Firenze” sia un falso, ciò pone le premesse indispensabili per procedere nelle riflessioni su opinioni e verità.

E' palese, infatti, che la segnalazione, qualora bossoli e proiettili non fossero stati disponibili, non avrebbe portato a nulla. E d'altra parte, Lettore, si deve considerare che se l'entità “Mostro di Firenze” (un singolo, una pluralità, un'organizzazione, un fiancheggiatore, un parente, un fan...) aveva avuto modo di accedere agli archivi per sapere dell'esistenza del fascicolo e della busta con i reperti, e quindi dell'interruzione della catena di custodia, per esso, o per qualcuno collegato con esso, sostituire i reperti sarebbe stato facilissimo.

E non ti lasciare ingannare da verità mostrologiche e nemmeno eretiche, che vedrebbero nella necessità di ottenere reperti simili una difficoltà insormontabile, con l'esplosione di chissà quanti colpi, l'uso di gelatine balistiche, ed improbabili altri artifizi da romanzo giallo; credo che per il Mostro di Firenze, almeno dopo la ricostruzione di Baccaiano, sia divenuto chiaro che chi é coinvolto in questa storia, come hai potuto vedere, non legge le perizie, non legge i rapporti, eppoi ha, evidentemente, i suoi metodi ed i suoi canali...nel caso, gli sarà bastato esplodere un decina di colpi contro una carcassa, raccattare a casaccio cinque bossoli (qualora, beninteso, non fossero già stati disponibili), estrarre (quasi) altrettanto a casaccio cinque proiettili, e portarli in Tribunale, infischiandosene della stretta somiglianza. Chi avrebbe mai verificato se fossero gli originali o meno? Gli investigatori non si sono mai curati più di tanto del fatto che a volte il numero di bossoli neanche corrisponda ai colpi sparati…

Né, essendo spillati al fascicolo, la sua sostituzione avrebbe comportato quell’azzardo descritto in “Coniglio il martedì”; nella realtà le cose sarebbero state di gran lunga più semplici, come d’altra parte ci conferma Davide Rossi:

"Sul fatto dei bossoli posso dire che in tribunale può succedere qualsiasi cosa. Le procedure sarebbero precise, ma in realtà, a volte, all'interno dei faldoni si trova di ogni... cioè, quindi... é meglio... tralasciare questo aspetto"

Resterebbe da stabilire, prescindendo dal fatto che il Mostro o chi per lui abbia effettivamente sostituito i reperti, quale fosse lo scopo dell’azione realmente significativa, e cioè inviare, a distanza di ben quattordici anni dall’omicidio, il fatidico ritaglio di giornale. Perché?

Anche qui, le possibilità sarebbero solo due: o per effettuare un depistaggio, o per fornire un suggerimento. Esisterebbe, per la verità, una terza possibilità, evocata dal famigerato biglietto dello “zio Pieto”, ma non la considererò qui; caso mai, alluderò ad essa più avanti. Non vorrei alzarmi dal letto, domattina, e vedere riflessa nello specchio l’immagine di un mostrologo anziché del solito blogger da strapazzo. Eppoi, ai fini del presente ragionamento, sarebbe relativamente ininfluente; pertanto Lettore, preferisco continuare sulla linea fin qui seguita.

Il fatto che ciò sia avvenuto subito dopo Baccaiano renderebbe più verosimile l'ipotesi del depistaggio, resosi opportuno, in via precauzionale, a causa del parziale fallimento dell’operazione. Ma soprattutto alla comunicazione relativa al fatto che Mainardi avrebbe parlato: in fondo, falsa informazione contrapposta a falsa informazione. Depistaggio contro depistaggio. Mostro di Firenze contro Istituzioni: 1 a 1.

Davide Rossi, interloquendo con il carabiniere che gli parlò del ritaglio, concorda con lui che il "Mostro" lo abbia fatto per “intestarsi il delitto”, per attribuirsene la paternità (partendo però dal punto di vista che l'arma fosse sicuramente la stessa). Ci sarebbe da chiedersi perché, se il "Mostro" desiderava questo, ci abbia messo quattordici anni per farlo, ed abbia lasciato marcire in galera il povero Stefano Mele; quando, a detta di tutti il "Mostro" si sarebbe sempre adoperato per scagionare chi era in galera, addirittura compiendo altri delitti, e dimostrando come il malcapitato non fosse il "mostro". Davide Rossi sostiene che l’attesa sia stata deliberata; ma d’altra parte, qui si trattava solo di inviare un ritaglio di giornale...

Ma quand'anche così fosse, il fatto di "intestarsi" un altro delitto, rappresenterebbe comunque una sorta di suggerimento: "bada che anche quella volta ero io, e non altri".

Ma d’altra parte,  se anche fosse un suggerimento, bisogna considerare come esso potrebbe anche non essere pervenuto dall'entità "Mostro di Firenze"; ad esempio potrebbe essere giunto da qualcuno a conoscenza dei fatti, o anche qualche (magari ex)componente dell'entità "Mostro di Firenze", che avesse voluto interrompere la serie delittuosa, pur non potendo esporsi in prima persona con una denuncia diretta.



Una tabella a doppia entrata

Comunque sia, Lettore, avremmo quattro combinazioni, quattro possibilità:

- l'arma é la stessa, e l'invio del ritaglio é un depistaggio

- l'arma é diversa, e l'invio del ritaglio é un depistaggio

- l'arma é la stessa, e l'invio del ritaglio é un suggerimento

- l'arma é diversa, e l'invio del ritaglio é un suggerimento





Ma allora non vi sarà mai modo di sapere se i reperti nel fascicolo fossero quelli originali o no? Be’, a questo punto no, con ogni probabilità. Qualcuno (compreso Davide Rossi) parla dell’esistenza di fantomatiche fotografie, che però nessuno ha mai visto. E se esistessero, almeno il GIDES, dopo i dubbi sollevati dal Sovrintendente Natalini (che, per quanto infondati, Giuttari fece propri) le avrebbe recuperate per controllarle; ma di esse sembra non esservi traccia.

Quando Zuntini consegnò la perizia ultimata, venne redatto il relativo processo verbale con il quale il perito dichiarava di consegnare n. 24 fogli scritti a macchina. Inoltre vi si trova scritto: “Si dà altresì atto che restituisce due fascicoli di alcune fotografie ed i reperti costituiti da cinque proiettili cal. 22 e cinque bossoli per cartuccia Winchester cal. 22”. Pertanto, la perizia consisteva solo in 24 fogli dattiloscritti, mentre le uniche fotografie di cui si fa menzione vengono restituite insieme ai bossoli, trattandosi evidentemente delle immagini riprese dai Carabinieri, e che erano state fornite a Zuntini, insieme a bossoli e proiettili, per redigere la perizia.

L’unica verifica che sarebbe possibile fare è, qualora non sia già stato fatto, è quella relativa alle immagini dei bossoli riprese dai carabinieri di Signa quando reperirono i due bossoli all’interno della vettura il giorno dopo il delitto (quelli trasmessi in data 25 agosto 1968, con foglio n. 49/42-2). I carabinieri sicuramente ne documentarono la posizione, ma si potrebbe verificare se esistano, se non delle vere “macrofoto”, delle fotografie comunque più dettagliate dalle quali possa desumersi qualche macroscopica particolarità morfologica.

Ma d’altra parte non è detto che ciò sia indispensabile; potrebbe alla fin fine essere inutile. E a questo punto Lettore sono costretto a darti una cattiva notizia: anche lo sforzo in cui ti sei prodotto per leggere i miei sproloqui fin qui è stato inutile.



La tabella a doppia entrata diviene una dicotomia, una semplice alternativa

Perché, vedi, Lettore, questo è come fosse un gioco di prestigio, in cui il prestigiatore esegue un’azione, un “trucco”, che, attraendo l’attenzione degli spettatori, evita che essi si focalizzino sull’evento reale; e qui l’evento significativo non è la scoperta che l’arma fosse la stessa, per vera o falsa che sia tale scoperta. Quello è il “trucco”. L’evento realmente significativo è l’invio del ritaglio di giornale.

Infatti, se l’arma dovesse essere la stessa, va da sé che esiste un qualche, forte, legame tra il delitto di Signa e quelli del Mostro di Firenze; rapporto che si prolunga comunque fino all’interno del Tribunale, e che dava cognizione, a colui che ha inviato il ritaglio, del fatto che bossoli e proiettili fossero rimasti nel fascicolo.

Ma anche quando l'arma non dovesse essere la stessa, per far finta che lo fosse il Mostro doveva comunque scegliere un delitto commesso con una calibro 22; inserire proiettili e bossoli della sua calibro 22 nel fascicolo di un delitto commesso con una, ad esempio, calibro 9 non sarebbe stata una buona idea.

E tra i delitti commessi con una 22, doveva sceglierne uno per il quale fosse stato usato munizionamento Winchester (problema ineludibile, in quanto ciò si trova documentato nella perizia Zuntini), e fosse possibile la sostituzione; in altri termini, doveva comunque essere a conoscenza del fatto che i reperti erano rimasti nel fascicolo, o almeno che il fascicolo era incustodito e accessibile. Certo, avrebbe potuto scoprirlo per caso, mentre, animato da mostruosa curiosità, scartabellava all’interno dei tribunali. Però, quand'anche avesse scoperto successivamente che ricorrevano le condizioni per poter compiere l’operazione, come avrebbe fatto a procurarsi il ritaglio di giornale? Certo, si sarebbe potuto recare presso la redazione de “La Nazione” e chiedere la ristampa di alcune pagine di numeri di molti anni prima, ma avrebbe dovuto avere un riferimento preciso riguardo alla data di pubblicazione, e soprattutto avrebbe lasciato una macroscopica traccia... insomma, appare poco probabile che il ritaglio di giornale non fosse già in suo possesso. Tra l’altro, un depistaggio posto in atto con una sostituzione di reperti relativo un episodio scollegato dalla vicenda, ma compatibile ed individuato a posteriori coincide esattamente con quanto proposto in “Coniglio il martedì”; e proprio il fatto che si trovi scritto lì rafforzerebbe la mia convinzione di come ciò debba costituire un’eventualità remota, da non considerare.


Quindi, sia che l'arma fosse la stessa, sia che non lo fosse, il "mostro di Firenze" deve comunque avere un forte legame con il delitto di Lastra a Signa, legame che non si è limitato al delitto, ma che è rimasto negli anni. Se questo legame sia proprio l'arma o sia altro poco importa. In altri termini, Lettore, il significato ultimo dell’operazione risiede appunto nel ritaglio di giornale, non nell’eventuale sostituzione dei bossoli o dalla scoperta dell’identità dell’arma; quest’ultima è irrilevante, tanto più che l’arma non è mai stata trovata.

Oltretutto, Lettore, anche l’espressione verbale “l’arma sia la stessa” sarebbe, in qualche modo, impropria. Questa è una possibilità sulla quale avrei preferito sorvolare; ma nei giorni scorsi, riguardando diversi file che giacevano da tempo sull’hard disk, mi è ritornato sotto gli occhi un vecchio PDF, “The Purloined Letter” racconto di Edgar Allan Poe tradotto in italiano con il titolo di “La lettera rubata”; così, non sono stato in grado di trattenere tale impulso. Anzi, è un racconto che, qualora Tu non l’abbia mai fatto, ti consiglierei caldamente di leggere. Ma ritorniamo all’arma; anzi, per la precisione, ai fatti che riguardano l’arma.

I fatti sarebbero:

- nel 1974 ha inizio una serie omicidiaria che riguarda delitti a danno di giovani coppie appartate il luoghi isolati

- le vittime vengono uccise o gravemente ferite (ed uccise successivamente con arma bianca) servendosi di un’arma calibro 22

- ciò viene desunto sia dai proiettili sia dai bossoli reperiti sulla scena del crimine

- in alcuni casi, il numero dei bossoli reperiti è inferiore al numero dei colpi esplosi

- dopo i primi due omicidi, le perizie balistiche comparative evidenziano come i proiettili sono esplosi dalla stessa arma, ed i bossoli espulsi dalla stessa arma. I proiettili presentano 6 rigature destrorse, ed i bossoli sono stati espulsi da un’arma automatica

- nel 1982, una segnalazione anonima fa ricollegare un delitto antecedente al 1974 alla serie omicidiaria; il collegamento sarebbe costituito da bossoli e proiettili, con caratteristiche analoghe a quelle dei reperti degli altri omicidi

- Un’ulteriore perizia comparativa, oltre a confermare l’identità dell’arma che ha esploso i colpi, nonché di quella che ha espulso i proiettili, determina come i bossoli derivino tutti da un singolo lotto di produzione Winchester

- L’arma viene verosimilmente identificata in una Beretta serie 70 a canna lunga

- I tecnici Beretta, dopo diverse prove, sostengono, a causa dell’assenza di affumicatura dei bossoli, che l’arma è certamente a canna corta

- Vengono effettuate prove di poligono su centinaia di Beretta serie 70, senza poter individuare l’arma; le prove vengono eseguite prima comparando i bossoli dell’arma in prova con quelli repertati sui luoghi degli omicidi, e successivamente, nel caso in cui la comparazione sia positiva, sui proiettili

- Vengono effettuate numerose perquisizioni che non portano comunque al ritrovamento dell’arma

- Tale ipotetica arma viene definita “usurata e maltenuta” da chi periziò originariamente i reperti del crimine antecedente al 1974, ben mantenuta e poco usata nelle perizie successive, due delle quali condotte sempre da chi si occupò del delitto del 1968; anzi, sembra che il tempo trascorso non abbia il benché minimo riscontro sui bossoli, i segni sui quali, negli anni, presentano tutti la medesima intensità

Verità mostrologica

Un singolo individuo abilissimo ha ottenuto, in modo imprecisato, una Beretta serie 70 ed una scatola di munizioni. Con tale arma esegue sporadicamente omicidi di coppie appartate. Non è dato di sapere né come si sia procurato l’arma, né come si sia procurato la scatola di munizioni, né esattamente perché faccia trascorrere anni tra un omicidio e l’altro. Non si capisce perché abbia commesso l’omicidio antecedente a quello del 1974, e perché ne abbia informato gli inquirenti successivamente. L’incongruenza tra i colpi esplosi ed il numero dei bossoli viene attribuito alle scarse capacità degli inquirenti, anche quando usano metal detector per le ricerche. L’interruzione della catena di custodia dei reperti antecedenti al 1968 e la loro mancata distruzione viene attribuita ad incuria o, addirittura, all’iniziativa di qualche funzionario che, contravvenendo alla legge, eviti deliberatamente la loro distruzione. Tutte le ricerche dell’arma risultano vane perché l’abilissimo individuo è in grado di occultare essa e le munizioni in modo tanto efficace da sottrarsi a qualunque tentativo di rilevamento; i segni sui bossoli non presentano differenze, negli anni, perché egli adopera arma e munizioni solo per compiere quegli omicidi. Non vi è una spiegazione della mancanza dell’affumicatura dei bossoli.

Opinione

Nel 1974 o poco prima, delle persone (una o più), che hanno una qualche attinenza con il delitto di una coppia avvenuto nel 1968, decidono, per qualche motivo, di compiere una serie di delitti analoghi. Si procurano una calibro 22 automatica, a canna corta, e due scatolae di munizioni. Esplodono con l’arma tutti i colpi delle scatole, raccolgono i bossoli e li conservano, poi eliminano l’arma (la smontano, la fondono, la lanciano in fondo al Tirreno dal traghetto durante la traversata Olbia-Livorno…. quello che vuoi Tu), indi danno luogo alla serie omicidiaria con un’altra calibro 22, senza lasciare sul luogo i bossoli originari (perché é un revolver, perché usano la retina, perché li raccolgono, per quello che vuoi Tu) ma spargendovene alcuni espulsi dall’arma che non esiste più. Al momento opportuno (potrei dirTi, Lettore, “Perché non vai a vedere la data del biglietto dello ‘zio Pieto’…” ma se mi esprimessi in questo modo non sembrerei né un blogger da strapazzo né un mostrologo, quanto piuttosto il Mostro in persona) inseriscono anche cinque proiettili esplosi con l’arma che adoperano attualmente, insieme a cinque bossoli, già raccattati, nel fascicolo processuale del 1968, e li fanno ritrovare. Ovviamente, tutti i tentativi di risalire all’arma sono vani. Le prove di sparo non possono mai individuare alcuna arma compatibile con una che in realtà non esiste (se non per altro, perché bossoli e proiettili non appartengono alla stessa arma), e più in generale, non può essere ritrovata con alcun tipo di ricerca (perquisizioni, registri, convocazioni, prove) un’arma che non esiste. Le tracce sui bossoli sono costanti negli anni per il semplice motivo che le relative cartucce sono state sparate tutte insieme. I bossoli non hanno affumicatura, e poiché questa o queste persone sono assolutamente certe che l’arma non possa mai essere ritrovata, non si curano nemmeno di far sì che il numero dei bossoli coincida con i colpi esplosi.

Quale delle due possibilità ti sembra più verosimile, Lettore? Quale è quella più lineare? Quale è, tra le due, quella che spiega i fatti?

Mi rendo conto che, poiché l’arma non è mai stata reperita, ambedue le possibilità resterebbero allo stadio di congettura; che é un grado inferiore ad illazione, che a sua volta é un grado inferiore ad ipotesi. Ma mi rendo conto anche di come la seconda, pur essendo più “logica” è anche meno “mostro-logica” e spiegando i fatti, può essere al più elevata al rango di “opinione” mentre la prima è “verità mostrologica”. E non è possibile contrapporre semplici opinioni a verità mostrologiche.

Però Lettore... vorrei che, solo per un attimo, mi fosse concesso il beneficio del dubbio, la possibilità che la mia congettura sia reale, ma solo per poter immaginare le crasse risate del “mostro di Firenze” alla lettura della ricostruzione mostrologica delle dinamiche basate sulla posizione in cui sono stati reperiti i bossoli: “Il Mostro si trovava là, esplodeva due colpi, indi si spostava di un passo a sinistra e ne sparava altri due…” , costringendo peraltro il povero Innocenzo Zuntini ad arrampicarsi sugli specchi per fornire spiegazioni plausibili, prestando così il fianco agli attacchi della Moderna Mostrologia.

Né i residui ritrovati sui bossoli di Scopeti possono apportare alcuna informazione suppletiva al riguardo, escludendo che essi siano stati esplosi un decennio prima, e portati successivamente sulla scena. Su di essi, venne eseguita una perizia, progettata e condotta in modo ammirevole, dai periti Crea, Iadevito, D’Uffizi, che rilevò una presenza anomala (“caratterizzante”, nella perizia) di Zinco, cloro, fosforo, calcio e silice, ritenuta dai periti stessi come indicativa (non probativa) di un’attività attinente con l’Ortopedia.

Ma, dicono i periti stessi: "Nessun genere di analisi, né tantomeno quelle eseguite, permettono di affermare con assoluta certezza che i corpuscoli ritenuti caratterizzanti siano stati presenti sui bossoli antecedentemente allo sparo, alla conseguente caduta a terra o manipolazione, e che quindi la caratterizzazione sia effettiva in riferimento ai fini proposti"

Per me, Lettore, Solfato di Calcio + Fosforo + Cloruro di Zinco + grasso al silicone significa Odontoiatria, più che Ortopedia; ma non significa che il “Mostro di Firenze” sia un dentista. Vista l’esigua quantità di sostanze rilevate è sufficiente che chi abbia raccolto i bossoli sul luogo del delitto, o anche chi li abbia eventualmente portati lì fosse stato dal dentista anche il giorno precedente…

Mi accorgo però come mi stia dilungando eccessivamente su questioni irrilevanti; per riprendere le fila del discorso forse è meglio togliere di mezzo questa faccenda dell’identità dell’arma e considerare semplicemente l’evento certo: l’invio del ritaglio di giornale.



L'alternativa é, in realtà, una sola

Torniamo ad esso, poiché é chiaro come l'identità o meno dell'arma sia, in realtà, irrilevante; in questo modo, riduciamo a due le possibilità: invio ritaglio di giornale per depistaggio, o invio per suggerimento.



Ma anche qui, Lettore, le due alternative si identificano

Suggerimento o depistaggio? La domanda dobbiamo porcela in altro modo: a cosa ha condotto l'invio del ritaglio di giornale? Alla cosiddetta "pista sarda". Ed a cosa ha condotto la pista sarda? Ad un nulla di fatto; dopo decenni di indagini, nessuno di loro é stato trovato colpevole.

Pertanto, se voleva essere un depistaggio ha funzionato; se voleva essere un suggerimento, non ha funzionato. L'unica cosa che sappiamo con sicurezza é che la pista sarda non ha condotto a nulla per cui se chi ha mandato il ritaglio intendeva depistare, é riuscito nel suo intento, mentre la strada che si sarebbe dovuta seguire era un'altra. Se invece intendeva suggerire, non é riuscito nel suo intento e quindi la strada che si sarebbe dovuta seguire era comunque un'altra.

Il risultato non cambia: invariabilmente, il legame tra Mostro di Firenze e delitto di Lastra a Signa si sarebbe dovuto ricercare in un’altra direzione. La pista sarda é stata seguita per sette anni, e percorsa in ogni sua ramificazione. Se l'entità "mostro di Firenze" é legata al delitto di Signa e la pista sarda é negativa, c’é qualcosa in quell'episodio che si sarebbe dovuto approfondire, ma non si é fatto.

Bene, Lettore, mettendo cartesianamente in dubbio tutto fin dove possibile, siamo giunti ad una conclusione che in fondo è una banalità: c’è un legame tra Mostro e Signa e questo legame non è rappresentato dalla pista sarda. Questa é in realtà una conclusione inevitabile, basata su una logica stringente alla quale non si può sfuggire, cosicchè tutti sono costretti a convenire; anche quando intenderebbero dimostrare tutt’altro. Così, questa banale, lapalissiana deduzione si è trovato costretto a farla, magari inconsapevolmente, chiunque abbia preso in considerazione il problema.

Dice ad esempio Davide Rossi:

"Quindi il sillogismo é molto semplice: é stato il Mele? Siccome il Mele non può essere il Mostro e non può aver ceduto la pistola a terzi, il Mostro si nasconde tra Vinci Salvatore e Vinci Francesco. Ma Vinci Salvatore e Vinci Francesco dobbiamo escluderli per i motivi che abbiamo appena detto... di conseguenza non può essere stato il Mele, oltre che per tutti i motivi che abbiamo appena raccontato; né un killer su commissione... resta: il vero Mostro"

così come uno degli irriducibili della “pista sarda” (anzi di Salvatore Vinci), Alessandro Cecioni:

"L'errore del 1968 é l'errore che segna tutta la vicenda del Mostro. Perché noi possiamo anche pensare che il marito non c'entri niente, che tutti gli amanti della moglie non c'entrino niente, possiamo pensare che la pista sarda sia una bufala gigante. E' possibile! Ma... se é una bufala gigante la pista sarda, lì c'é qualcosa, che non é stato visto, e che ha fatto sì, che poi, é diventato quello che é diventato. Questo é chiaro!"

A questo punto, l'ultima domanda che rimane é: quale sarebbe quest'altra pista che non é stata battuta, il “qualcosa che non è stato visto” di Cecioni? Be', ovviamente l'unica che rimane avendo eliminato la pista sarda.

Però anche qui dovremmo forse dovremmo formulare la domanda in altro modo: perché il depistaggio/suggerimento ha condotto alla pista sarda?

Perché si dava per scontato che la vittima designata fosse Barbara Locci. Bene, ma perché si dava per scontato che la vittima designata fosse Barbara Locci?

Perché l’idea di associare l’omicidio al tradimento è quasi automatica.

Dice Davide Rossi:

Un delitto come quello del sessantotto è il classico delitto che matura in ambiente familiare. Muore una donna, sposata, con un amante in macchina, l’indiziato… non allora, ancora oggi… certamente è il marito, insomma, no?"

Nel 1968 non si guardò altro: e venne incriminato Stefano Mele che tutto avrebbe fatto fuorché farsi la galera per dei tradimenti sui quali era consenziente. In realtà, ciò che probabilmente avvenne fu che tra gli interrogatori con sganassoni e una galera senza sganassoni, scelse semplicemente la seconda. Oppure, come ha dichiarato più volte, tra la galera e la possibilità che uccidessero Natalino, preferì la galera. Ma, a mio parere, molto più probabilmente ambedue le cose.

Dopo il 1982, l’invio del ritaglio di giornale non modificò la faccenda; vi era in più il peso dell’esistenza di un reo confesso, di una sentenza di colpevolezza definitiva, e di un’espiazione di pena già terminata; ciò, maggior ragione, doveva necessariamente includere, a qualche titolo, il sardo Stefano Mele nel novero dei colpevoli.

L’attenzione è stata quindi focalizzata sul concetto più evidente ed usuale, stornandola da ciò che in effetti avveniva; il concetto sul quale ogni gioco di prestigio si basa.

Ma secondo te, Lettore, se Barbara Locci ed Antonio Lo Bianco anziché essere amanti occasionali, ma appartenenti a ben definiti e diversi nuclei familiari, fossero stati due persone che, semplicemente stavano insieme, senza tradimenti, quali sarebbero stati occhiello, titolo e cappello sugli articoli dei quotidiani del 1968? Probabilmente, simili a questo:




Il riferimento al mancato reperimento del portafogli, ed all'identificazione del Lo Bianco tramite il certificato di "situazione familiare" é desunto dal "rapporto Matassino"; il maresciallo Funari dichiarerà solo successivamente che l'uomo aveva un portatessera nel quale erano presenti sia patente, sia carta d'identità. Ora, se si fosse escluso il tradimento, escludendo per forza di cose rapina e tentativo di violenza carnale, secondo Te, Lettore, le indagini si sarebbero concentrate sulla Locci o sul Lo Bianco?

Eppure, questo aspetto venne scarsamente considerato

Il colonnello Torrisi, nel suo celebre rapporto investigativo, l’aveva senz’altro liquidata in poche battute:

Nei confronti del CUTRONA, sebbene chiamato in causa dal MELE Stefano, in quella altalena di accuse e di ritrattazioni, mai sono emersi indizi di alcun genere, meritevoli di approfondimento e la sua posizione in seno alla vicenda è ritenuta del tutto marginale ed ininfluente nel contesto della consumazione del duplice delitto.

Ma il giudice Rotella aveva invece intuito come tale possibilità fosse stata in qualche modo negletta:

Questi [Antonio Lo Bianco] è un muratore siciliano, immigrato e sposato con una sua cugina, Rosalia Barranca, dalla quale ha avuto tre figli. Le loro condizioni non sono molto più agiate di quelle dei Mele, che vivono in condizioni precarie. La Barranca ha a Lastra un fratello, Giuseppe, che ultimamente lavora con Mele ed un fratellastro, Colombo Antonino, al quale è molto legata. Subito escussi, costoro dichiareranno che la sera prima il cognato avrebbe voluto accompagnarsi con loro e con un amico per andare a cena, ma lo avevan rinviato dalla moglie che non gradiva sue assenze prolungate da casa. Eran tornati tardi e nulla avevan saputo del mancato rientro del Lo Bianco.

Quello stesso pomeriggio saranno interpellati anche i fratelli dell'uccisa e forniranno i loro alibi.

Non è improbabile che siano stati fatti sommari riscontri. Ma delle escussioni e di correlative attività non è traccia alcuna in atti. E sono cose che si sono apprese durante questa istruttoria dagl'interessati, in taluni casi approfondendole per quanto possibile, ad oltre 15 anni di distanza dai fatti e senza tracce documentali, con indagini specifiche e dettagliate escussioni testimoniali.


E il dubbio sembrerebbe essere sorto anche in Tricomi, il quale nell’ottobre del 1982, inviò al tribunale di Palermo, la richiesta di interrogare nuovamente Giuseppe Barranca, motivando la richiesta con la ricezione della comunicazione anonima relativa al fascicolo del delitto di Lastra a Signa. Lo stesso fece la Della Monica; però continuarono a guardare ai sardi, piuttosto che estendere la visuale. La Della Monica si occupò esclusivamente dei sardi, mentre Tricomi estese le richieste anche al gruppo dei siciliani, ma sol perché esisteva una traccia di questa famosa “scommessa” tra Francesco Vinci ed Antonio Lo Bianco riguardo alla Locci; la sua apertura mentale sembra comunque essere rimasta limitata dal preconcetto per cui il bersaglio principale dovesse essere la Locci.

A ben guardare, Lettore, quella di Tricomi era un’ipotesi di lavoro molto valida. Stefano Mele, in una delle sue innumerevoli confessioni, afferma di aver detto a Salvatore Vinci di non essere in grado di contrastare fisicamente “Enrico” “…senza nulla in mano sapendo che Enrico ha praticato la boxe”. Come mai Stefano Mele si tira fuori questa frase? Da dove avrebbe ricavato questa informazione, non conoscendo bene neanche il vero nome di battesimo del Lo Bianco?

Se la “scommessa” tra Francesco Vinci ed il Lo Bianco fosse degenerata andando al di là del semplice scontro verbale ed il Lo Bianco avesse avuto la meglio perché aveva “praticato la boxe”, e dopo avesse addirittura portato via a Vinci una Barbara Locci consenziente, il fatto che Francesco Vinci abbia potuto volere vendicarsi, sentendosi tradito dalla Locci con chi avesse fatto il gradasso con lui, magari suonandogliele pure, è assolutamente plausibile. Da parte di uno come Francesco Vinci, voler uccidere chi lo aveva umiliato, e la donna che andava via con il vincitore è esattamente ciò che ci si sarebbe aspettato; così come ci si sarebbe aspettato che lo facesse con un’arma e di sorpresa, specialmente se le aveva già buscate. Ed è assolutamente plausibile che si sarebbe portato dietro il succube Mele proprio perché si occupasse di Natalino. La sostituzione di bossoli e proiettili eliminerebbe anche il problema del passaggio dell’arma, mai esistito.

Questa soluzione per il delitto di Signa sarebbe stata perfetta. Il problema qui sta nel fatto che Tricomi indagò questa possibilità ma la cosa non ebbe seguito; ed anche Rotella la considerò attentamente prima di escluderla.

Vedi Lettore, in questa vicenda le indagini sono sempre state condotte male, approssimativamente, e guidate da pregiudizi, in parte derivanti da una concezione obsoleta del modo di condurle, come dice Davide Rossi:

Gli investigatori che si trovavano di fronte a un delitto, procedevano nella seguente maniera: si recavano sul luogo del delitto, effettuavano i rilievi, dopodiché le indagini si svolgevano in due direzioni. Le prime indagini, naturalmente, riguardavano i familiari, perché quasi tutti i delitti sono in ambito familiare. Appurato che la famiglia non c’entrasse niente, la ricerca si… sostanzialmente si basava soltanto su elementi testimoniali… perché non dimentichiamoci che all’epoca non esistevano telecamere, non esistevano i cellulari, non esisteva il DNA, non esisteva niente.

Ma un conto è la conduzione delle indagini, un altro è la valutazione dei risultati. Quest’ultima è fortemente dipendente dalle capacità analitiche, logiche e deduttive di coloro che valutano i risultati della conduzione delle indagini, qualunque essi siano; e non è ipotizzabile che tali capacità si siano sviluppate negli ultimi venti anni, e che prima fossero totalmente carenti. Intendo dire, Lettore, che mostrologi, inquirenti, avvocati, giornalisti, scrittori, e tutti quelli che continuano gravitare adesso intorno a questa vicenda, leggono gli stessi verbali, le stesse perizie, gli stessi rapporti, le stesse dichiarazioni e le stesse sentenze che lessero investigatori ed inquirenti di allora; non ci sono nuove informazioni riguardo alla vicenda stessa. E’ sicuramente possibile, per quanto detto prima, che gli inquirenti di allora non abbiano neanche pensato di imboccare certe strade, e che questo si possa rilevare adesso; ma se allora imboccarono una strada, e la percorsero, diviene improbabile che non abbiano visto ciò che adesso un qualunque mostrologo sia in grado di vedere. In altri termini, una cosa è considerare ipotesi relative a chi non è mai entrato nelle indagini, un’altra è ritenere che non si sia stati in grado, nonostante interrogatori, raccolta di indizi, pedinamenti, appostamenti, di dimostrare la colpevolezza di un sospettato o di, almeno, raccogliere pesanti indizi sulla sua colpevolezza.

Mi spiego meglio.

Le richieste contemporanee degli avvocati Mazzeo o Vieri Adriani, al netto delle pressioni di chi ha un interesse nel pubblicizzarle e documentarle, hanno un senso: prospettano eventualità non considerate, e che potrebbero condurre vicino ad una verità scientifica e non mostrologica. Il fatto che essi vengano ostacolati acuisce il sospetto che possa essere così, tanto più se consideriamo piccoli particolari sospetti; ad esempio, la Gabriella Ghiribelli (testimone senza dubbio inattendibile, che può aver infarcito tutto di particolari inesatti o immaginari, ma non può avere inventato di sana pianta l’intera esistenza di decine di persone) parla nella sua testimonianza di un poliziotto alto robusto e con i capelli rossi facente parte della SAM. Tale riferimento risulta tagliato in diversi file audio (anche in quelli proposti come “versione integrale”), ed in quelli in cui è, parzialmente, presente è possibile notare come Canessa “glissi” sull’argomento; esplorare la possibilità di un “rosso del Mugello” può allora avere un senso, ma accanirsi ancora su una “pista sarda” che, se vera, avrebbe già prodotto risultati, non lo ha.

Applicando tale concetto al meccanismo cui darebbe luogo la “scommessa” tra il Vinci ed il Lo Bianco, per quanto esso possa generare un’ipotesi altamente suggestiva, e probabilmente in grado di spiegare gran parte delle incongruenze del delitto di Lastra a Signa, ciò andrebbe escluso per un semplice motivo: lo ha già escluso Rotella. Ed in fondo, se vogliamo, benché secondo tale possibile ipotesi il bersaglio principale sarebbe il Lo Bianco e non la Locci, essa comunque rientrerebbe in qualche modo nella “pista sarda”.

Quindi io ritengo che il significato reale, sebbene poco esplicito, dell’invio del ritaglio possa essere simboleggiato da queste frasi di Davide Rossi:

Anche perché il Lo Bianco non era un delinquente, e allora poteva entrarci di mezzo qualche altro tipo di movente… ehm… magari legato alla criminalità spicciola. Quindi è evidente che gli investigatori sono partiti sul marito… poi che elementi avessero ne discutiamo.

Allora, Lettore, come suggerisce Davide Rossi, discutiamone