sabato 22 dicembre 2012

LA VIA DEI BORGHI.4: Fascismo e Proletariato



Da questo punto in poi diviene difficile tentare di entrare nel merito di ciò che è successo. Diviene difficile persino descrivere ciò che è successo. Ciò perché chi dovrebbe riportare i fatti storici riporta invece le proprie opinioni politiche. E’ un atteggiamento che già è palpabile leggendo la storia del Regno delle Due Sicilie; esistono infatti ancora i nostalgici della monarchia borbonica, che spesso arrivano a sostenere l’insostenibile per contrapporsi a chi invece vedrebbe nell’unità d’Italia la degna conclusione del Risorgimento italiano. Ma nel caso del Fascismo tali atteggiamenti contrapposti si estremizzano: chi scrive di solito o è nostalgico oppure è antifascista. Gli eventi vengono descritti, ma o vengono magnificati o minimizzati, comunque sempre distorti. Da un lato persino atteggiamenti e realizzazioni negative sono espressione di determinazione e risolutezza, dall’altro anche le azioni più limpide e brillanti sono manifestazioni propagandistiche. Per alcuni il deprecato Ventennio è stato l’unico periodo in cui sono state realizzate importanti opere pubbliche in Sicilia; per altri, queste sono state inutili o insufficienti. O hanno costituito solo una forma di propaganda. O hanno chiaramente lasciato trasparire solo una presa d’atto dell’esistenza della questione meridionale,  quando non addirittura la volontà di mantenerla: la Sicilia era una regione di serie B, una sorta di colonia in territorio nazionale, e tale doveva rimanere. Così è stata interpretata da alcuni la tipologia degli interventi realizzati sull’isola. Sono indubbiamente state realizzate diverse linee ferroviarie; ma erano a scartamento ridotto, come quelle delle colonie. Sono stati costruiti borghi e villaggi in gran numero; proprio come nelle colonie. E mentre il Nord Italia si industrializzava, in Sicilia si cercava di favorire solo lo sviluppo del l’agricoltura; come nelle colonie.

Probabilmente, Lettore, come spesso accade in questi casi, la verità sta nel mezzo. Il Fascismo ha indubbiamente ereditato la “questione meridionale”,  ed in seno ad essa un’inveterata, plurisecolare, “questione siciliana”, comprensiva di mafia. E l’ha considerata. Ma come accaduto ai governi precedenti, dall’unità d’Italia ed anche a tutti quelli successivi fino a quelli contemporanei, il Fascismo non governava la Sicilia: governava l’Italia. Tutta, e contemporaneamente. E la Sicilia era indubbiamente sottosviluppata. E’ possibile che si sia adottato inizialmente un piano d’azione unico, già delineato nelle linee generali, rapido e, nelle intenzioni dei suoi ideatori, efficace, da adottare nelle zone sottosviluppate per “metterle al passo” con quelle più evolute. Che tali zone si trovassero entro i confini nazionali, o fossero paesi “colonizzati”, poco importava. Ma che qualcosa di realmente attivo e fattivo si sia poi intrapreso per la Sicilia è indubbio. Non mi sento però assolutamente di condividere il concetto dello scrittore Antonio Pennacchi riguardo alla “dittatura del proletariato”. Durante il Fascismo vennero sicuramente gettate le basi della rete ferroviaria italiana (non solo siciliana); ma altrettanto sicuramente vennero licenziati più di trentamila ferrovieri (avvalendosi D.L. 143 e 153 del 1923 e 172 del 1924), mentre per quelli rimasti in servizio era stato abolito il diritto all’assistenza sanitaria (R.D. 2918 del 1923), era stato incrementato il numero delle ore di lavoro, e ridotto lo stipendio, stipendio invece incrementato per i quadri più alti (una sorta di governo Monti, insomma). Ed anche i ferrovieri facevano parte del proletariato; il regime considerava le ferrovie, non i ferrovieri. Sicuramente fu migliore l’atteggiamento nei confronti dei minatori, con la fondazione di (almeno) quattro villaggi minerari, ultimati dopo la guerra, e di un "Ufficio per la vendita dello zolfo italiano" , minatori che però altrettanto sicuramente non ricevettero un’attenzione pari a quella di cui sembravano degni gli agricoltori; quindi, semmai, sarebbe stata non una “dittatura del proletariato” ma una “dittatura dei contadini”.  E d’altra parte,  ciò viene riconosciuto anche dallo stesso Antonio Pennacchi che dopo aver parlato di “dittatura del proletariato” qualche pagina più avanti aggiusta il tiro, parlando di “dittatura del proletariato contadino”.

Tuttavia Lettore, a mio parere, neanche questa può essere considerata una definizione realistica. I contadini erano soggetti passivi; e sebbene la memoria collettiva rurale conservi un ricordo quasi idilliaco del fascismo, in realtà essi vennero coinvolti loro malgrado. Perché, come per i ferrovieri, l’attenzione di cui parlo poche righe sopra in realtà non era rivolta agli agricoltori; era rivolta all’agricoltura.

Che il Duce mostrasse un particolare trasporto per tutto quel che riguardasse la vita rurale sembra fuor di dubbio. E’ chiaro che la propaganda di regime richiedeva la presenza della sua figura tra il popolo, ma nella  partecipazione ad eventi legati al mondo proletario egli sembra comunque prediligere quelli legati alla vita nei campi. 

Ma ciò che sembra potersi dedurre da certi fatti, è che la predilezione fosse rivolta al mondo rurale inteso come modello di società (o di una parte fondamentale di essa) e non alle persone che di tale mondo facevano parte. La città giardino come prototipo per nuove città di fondazione, le pressioni esercitate con ogni mezzo per spingere i cittadini all’esodo, l’urbanesimo basato su piccoli centri, i tentativi di riconvertire forzosamente altre classi di lavoratori in agricoltori, sono fatti che, insieme all’anti individualismo proprio della filosofia fascista, puntano tutti in questa direzione. E’ inoltre verosimile che questa visione delle cose avesse delle motivazioni in termini di politica economica. Le attività rurali sono infatti l’unica forma di primario suscettibile di incremento con il lavoro. Non è possibile incrementare i giacimenti di combustibile o di minerali, o le risorse naturali della pesca (almeno fino a poco tempo fa) a disposizione di una nazione. Ma agricoltura e pastorizia sono risorse suscettibili  di venire notevolmente incrementate dall’attività umana esplicata su di esse. L’esempio pratico più palese è forse quello della “battaglia del grano”, intendendo con tale locuzione la pianificazione di una serie di attività volte ad incrementare la produzione del grano per sottrarre l’Italia all’onere dell’importazione del cereale, che allora ammontava mediamente a 24 milioni di quintali all’anno. Fu annunziata da Mussolini il 25 giugno 1925, e nel 1931 venne decretata la "vittoria del grano", con una produzione nazionale di 81 milioni di quintali ed un’importazione di poco superiore ai quattro milioni di quintali annui. Sicuramente non si raggiunse l’azzeramento delle importazioni, ma altrettanto sicuramente la produzione fu superiore alla somma delle quantità prodotte più quelle importate negli anni che precedettero la “battaglia”.

Ciò che appare comunque evidente è che la suddetta predilezione fosse comunque preesistente alle cariche ricoperte poi in seno al  governo. E ciò che è ugualmente evidente è che Mussolini, una volta giunto al potere, fu determinato nel realizzare il processo di ruralizzazione, inteso come processo opposto all’urbanizzazione.



LA VIA DEI BORGHI.3: l'Unità d'Italia



Vi sono, Lettore, diverse persone accanite sostenitrici della monarchia Borbone, e del suo operato. Per esse, la questione meridionale ha inizio con l’Unità d’Italia. Sono convinte che l’arretratezza economica e sociale del Mezzogiorno sia da ricondurre alla politica dei Savoia, e che il Sud sarebbe rimasto prospero come lo era ai tempi del Regno delle Due Sicilie, se il regno unitario non fosse mai stato proclamato. Non so quanto questa posizione sia, in generale, sostenibile: l’aggettivo “borbonico” viene spesso usato per indicare arretratezza. E’ palese però che esisteva già da allora una differenza tra le terre “al di qua del faro” e quelle “al di là del faro”. La servitù della gleba, in Sicilia, viene abolita  solo nel 1789, con Caramanico ; ed il feudalesimo  nel 1812 in Sicilia, ma dieci anni prima nel regno continentale. E’ sicuramente vero che nel Regno delle Due Sicilie esistevano industrie di notevole importanza a livello europeo (come l’industria metalmeccanica di Pietrarsa o la cartiera di Fibreno); ma è altrettanto vero che se si esaminano gli elenchi delle posizioni di spicco raggiunte dal regno borbonico, per quanto riguarda la Sicilia ne vengono menzionate sempre e solo due: la scoperta di Cerere da parte dell’abate Piazzi, e la nascita del primo ospedale psichiatrico ad opera del barone Pisani. Eventi ambedue riconducibili alla capacità di singole persone, e non ad iniziative statali. La Sicilia non viveva lo stesso periodo di floridezza socio-economica che si vorrebbe attribuire al Regno delle Due Sicilie visto nella sua globalità. E’ questa una delle tante evidenze dell’esistenza di una “questione siciliana” in seno alla questione meridionale, che riguardava principalmente la classe contadina; ed è a tale questione che il regno unitario si trovò di fronte. E la maniera di fronteggiarla non fu dissimile da quella del passato: minacce e violenze verso gli agricoltori, solidarietà e appoggio alla “classe dirigente” ( allora nobiltà, oggi classe politica)

Già durante il regno borbonico gli inviati governativi si erano meravigliati della mancanza di infrastrutture, di scuole, della percentuale di analfabeti, delle strade inesistenti, della miseria dilagante, sia nelle città, sia nelle campagne. E questo nonostante lo stanziamento annuale di 300000 scudi per la Sicilia. La nobiltà siciliana ha sempre preferito lucrare sul sottosviluppo dei ceti medio bassi che, schiacciati dalla povertà, erano costretti a chiedere qualunque cosa come fosse una concessione e non un diritto, anziché migliorarsi per migliorare, e migliorare per migliorarsi, almeno dal punto di vista morale. Questo ha sempre generato un gran numero di sottomessi, ed un certo numero di delinquenti usati come “braccio armato”.

Continua quindi a perpetuarsi l’atteggiamento che è all’origine della mafia ed alla sua collusione con le istituzioni. La Costituzione del 1812 ha lasciato al potere la nobiltà ed inalterata la condizione sociale; e con l’arrivo di Garibaldi la situazione non migliora. La nobiltà, destra moderata, vuole l’annessione subito per continuare a godere dei privilegi cui ha goduto finora (come Tomasi di Lampedusa magistralmente esplicita nel “Gattopardo”, attraverso il suo don Fabrizio Salina), e per accaparrarsi le terre demaniali acquisendo ancora più potere. La paura di perdere la posizione di privilegio viene fronteggiata enfatizzando ulteriormente tali atteggiamenti, e cioè favorendo il clientelismo, corrompendo, minacciando, facendo variare leggi e regolamenti in maniera da acquisirne vantaggio. Nel 1860, nella Sicilia nord-orientale si verificano delle sommosse (Alcara li Fusi a maggio, Bronte e comuni limitrofi a giugno) che le autorità garibaldine reprimono col sangue facendo prevalere ancora una volta l’interesse e la prepotenza dei ceti nobiliari, i cui privilegi sono garantiti adesso dallo Statuto Albertino. 

D’altra parte, quando viene proclamato il Regno d’Italia, il meridione è più una colonia che una regione. Poiché gli analfabeti non hanno diritto di voto, solo il 2% della popolazione può votare. Ed inoltre, viene reintrodotta la tassa sul macinato, ed introdotta la leva militare obbligatoria, della durata di sette anni , che tra l’altro toglie braccia all’agricoltura. E mentre i nobili corrompono gli ufficiali sanitari per evitarla, i poveri vivono questo come un’ulteriore ingiustizia e non possono fare altro che tentare di sottrarvisi. A causa di ciò, nel 1863 il governo dichiara in Sicilia lo stato d’assedio, proclama la legge marziale, e condanna a morte i renitenti come disertori. E, perché serva da esempio, le condanne sono spesso eseguite in pubblico,  con metodi abietti e cruenti.

Quando il Lazio viene annesso allo stato unitario e Roma diviene capitale, la situazione non migliora per il Sud. Continua la chiusura delle imprese del periodo Borbonico, quando invece il Settentrione è favorito ed incentivato, mentre il Sud viene stroncato dalle imposizioni fiscali. Questo favorisce il fenomeno dell’emigrazione, che riguarda prevalentemente dei contadini; ed i terreni lasciati liberi dai contadini che emigrano vengono inglobati nel latifondo. Nella seconda parte del diciannovesimo secolo si ebbe allora al Sud il fenomeno dell’emigrazione ed una nuova ripresa del latifondismo.

Wikipedia riporta come l’espressione “questione meridionale” sia stata usata per la prima volta nel 1873 dal deputato Billia; la questione fu però portata alla conoscenza dell’opinione pubblica dall’inchiesta Franchetti-Sonnino, quattro anni più tardi. In questa viene tra l’altro chiaramente denunciata la collusione tra mafia, politica e latifondismo, e le motivazioni di essa.  L’inchiesta Franchetti-Sonnino è articolata in due volumi, di cui il primo riguarda essenzialmente la maniera in cui vengono gestiti i diritti individuali e collettivi in Sicilia ed il significato di ciò in relazione al potere mafioso, ed è a firma di Franchetti. E’ il secondo, scritto da Sonnino, che concerne la condizione dei contadini (ed in minor misura anche quella dei minatori), descritta per diverse zone geografiche dell’isola. Nota per favore, Lettore, come l’inchiesta di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino riguardasse sempre “la Sicilia del 1876”, e non, in generale, il Mezzogiorno d’Italia. Anche qui, è una “questione siciliana”.

Alla fine degli anni Settanta del diciannovesimo secolo ci si trova davanti ad un Settentrione industrializzato ed ad un Meridione rimasto all’agricoltura. La vicinanza delle regioni settentrionali alle altre nazioni europee si riflette in un incremento della produzione industriale, e ciò richiede interventi statali e  creazione di diverse infrastrutture. Nel Meridione l’unica cosa che chiedono i latifondisti per non essere danneggiati dalla concorrenza estera sono leggi protezionistiche che limitino le importazioni.

E così questa situazione in Sicilia non può che portare alla ribellione, che si concretizza nella nascita dei Fasci Siciliani; il movimento avrà termine nel 1894, soffocato con il sangue. Ed a ripetere lo stesso copione è sempre lo stesso statista, Francesco Crispi, responsabile del massacro del 1894 come lo era stato prima di quello di Bronte. Ma  se questa, Lettore, dovesse sembrarti la situazione peggiore possibile ti sbaglieresti. Il successore di Crispi è infatti il marchese Di Rudinì, che porta avanti gli interessi nobili-mafiosi, ed in confronto al quale Crispi appare realmente un illuminato. E con il successivo governo Giolitti vengono ulteriormente garantiti i privilegi baronali, si rinsalda l’unione tra politica e mafia ed il clientelismo diviene prassi. E così, fino a questo punto il latifondismo in Sicilia continua a prosperare.

Le prime iniziative volte a cercare di eliminare o ridurre le conseguenze dell’esistenza del latifondo risalgono nel periodo a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, e possono essere individuate nelle “affittanze collettive”.  Queste consentono a cooperative di contadini di avere in affitto le terre del latifondo, scavalcando il “pizzo” del gabelloto. Le affittanze collettive non sono un fenomeno limitato alla Sicilia; è però in Sicilia che assumono questo significato di affrancamento dalle imposizioni dei gabelloti. Il fenomeno subisce comunque un notevole ridimensionamento con la prima guerra mondiale, quando gran parte dei contadini parte per il fronte; e senza di essi, si assiste ad una ripresa del latifondismo. E così alla fine della guerra, due problemi divengono di grande attualità: da un lato, sempre il latifondismo, e dall’altro la presenza dei reduci.

Il 1919 fu, se non praticamente, almeno simbolicamente un anno fondamentale per l’agricoltura. Nasce infatti la confederazione delle Cooperative Nazionali, viene varato il decreto Visocchi, viene regolamentata l’Opera Nazionale Combattenti.

La Confederazione delle Cooperative Nazionali è sostenuta dal Partito Popolare di Luigi Sturzo, fondato nel medesimo anno. E don Sturzo era stato il fondatore dell’affittanza collettiva “Società Piccola Industria S. Isidoro”, nonché di una cassa rurale a Caltagirone.
Il decreto Visocchi prevede la possibilità, da parte dei prefetti, di assegnare per un periodo non superiore a quattro anni, a singoli, a cooperative o enti, i terreni incolti o mal coltivati.  Il concetto non è nuovo, anzi il principio appare in linea di principio simile al diritto di vivificazione delle terre morte, mentre nella pratica è molto più arretrato di quello; ed inoltre, le assegnazioni furono poche. Ma probabilmente ciò che conta è che viene preso in considerazione il principio secondo il quale la produzione agricola di vaste aree del territorio nazionale non può essere subordinata all’arbitrio di pochi.
Sempre nello stesso anno il governo, sulla scia del novello interesse mostrato dalle altre nazioni europee per i reduci di guerra, ordina e definisce le funzioni dell’Opera Nazionale Combattenti, istituita due anni prima con l’art. 5 del decreto luogotenenziale del 10 dic. 1917, n. 1970, con lo scopo di reinserire nella società i superstiti di coloro che, lasciando il loro lavoro e le loro famiglie, avevano messo la loro vita a disposizione della Patria.

Credo, Lettore, che il problema relativo ai reduci sia sempre stato vivo e presente in ogni tempo ed in ogni nazione, nel senso che probabilmente ogni paese ha sempre chiesto ai propri combattenti molto di più di quanto abbia dato loro; il romanzo di Rambo (quello originale da cui venne tratto il primo film, non i fumettoni d’azione che ne costituirono il sequel) è emblematico esso abbia continuato ad essere presente in tempi più recenti. All’inizio del XX secolo, in Europa tale problema fu considerato maggiormente degno di attenzione relativamente ai reduci della Prima Guerra Mondiale; e la risposta del governo italiano consistette appunto nell’ONC. 

Su quelli che furono i risultati ottenuti dall’ONC vi sono, abbastanza ovviamente, pareri fortemente contrastanti, alcuni dei quali vedono l’ONC come un’organizzazione sicuramente perfettibile, ma che avviò la risoluzione di una serie di problemi di notevole entità, mentre altri la giudicano un insieme di inefficienze, spreco e sfruttamento, e successivamente anche di propaganda. Ciò che di  fatto accadde fu che nel 1923 l’ONC divenne direttamente dipendente dalla  Presidenza del Consiglio dei Ministri,  che ne individuava i componenti del Consiglio di Amministrazione; tre anni dopo  l’ente venne commissariato, il Consiglio di Amministrazione venne sciolto, ed al suo posto venne istituito un Consiglio consultivo i cui componenti erano designati dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Non esprimerò alcun parere al riguardo perché scrivo per parlare di borghi, e ancora una volta ribadisco di non essere in grado di formulare giudizi storici né tantomeno politici; solo per chiarezza espositiva mi accade di menzionare determinati episodi, e, scrivendo, a volte dimentico di essere un ignorante e mi credo uno storico. Resta il fatto che l’ONC esistette; e che i reduci ebbero un ruolo nelle vicende che si svolsero in Italia agli inizi del XX secolo, non ultima la fondazione dei Fasci di Combattimento, da cui prenderà origine il PNF. 

Spero di non aver commesso grossolani errori  nell’aver approssimativamente riassunto più di un millennio di Storia. Ma comunque sia,  a questo punto, Lettore, siamo giunti temporalmente a ridosso della marcia su Roma. E quindi, a ridosso dei borghi rurali fascisti. Ma prima di parlarne, sono costretto ad entrare un po’ più nel dettaglio riguardo alla situazione che ne avrebbe generato l’esistenza; perché senza parlare di essa, la logica del mio filo conduttore svanisce.


LA VIA DEI BORGHI.2: i borghi rurali antecedenti al periodo fascista



Non ho dato finora alcuna definizione di borgo rurale; posso provare a farlo adesso, coniugando le definizioni di “borgo” e di “rurale” tratte dallo Zingarelli:

Borgo rurale: piccolo centro abitato della campagna

Nota per favore, Lettore, come “borgo rurale” non significhi necessariamente che vi sia un nesso diretto tra il centro e l’agricoltura. Attualmente, vi sarebbero diversi motivi della possibile esistenza di un piccolo centro abitato che sorga isolato nella campagna; ma fino a circa un secolo fa, la funzione principale dell’esistenza di un borgo rurale era quella di servire da villaggio agricolo.

Quindi,  i borghi come tali sono già presenti quando gli Arabi arrivano in Sicilia. Ma, come ho brevemente descritto in fase introduttiva, all’origine di tutta l’attività che mi ha portato a scrivere queste righe  vi sono i borghi rurali fascisti, e vorrei iniziare dagli antesignani di questi, che possono ancora essere visti (e magari fotografati); è a questi che vorrei riferirmi con l’espressione “primi borghi rurali”.

 Come prima accennato, la situazione verificatasi con la morte di Federico IV, perdurerà per più di un secolo,  dopo il quale si manifesterà un nuovo periodo di floridezza e di ripresa economica. Ed è già in questo periodo che iniziano a sorgere nuovi bagli, masserie fortificate, e borghi. Ed in questo periodo il latifondo sembrerebbe frammentarsi, e la servitù della gleba scomparire. Ma parallelamente a questo si verifica il proliferare dei titoli nobiliari, venduti dalla reggenza formale, e l’alleanza dei nuovi ricchi con i vecchi nobili al fine tutelare i comuni interessi personali aggirando le leggi. Inoltre, poichè per essere accettati nella cerchia della antica nobiltà tradizionale, i nuovi nobili non devono lavorare per vivere (ma vivere di rendita) per almeno quattro generazioni, e non devono quindi più occuparsi personalmente del loro patrimonio, demandano l’amministrazione delle terre a degli emissari. E, come dicevo prima, è proprio qui che compare, per la prima volta, la figura del gabelloto.

Alla fine del Cinquecento/inizio del Seicento, si verifica una serie di eventi per cui i baroni sono in grado riacquistare le terre a poco prezzo, e si ricostituiscono i latifondi; a tale situazione si accompagna una notevolissima esplosione demografica. Al termine di questo processo, cessata la crisi, si assiste alla riconversione dei latifondi da pascolo a coltivazione; ed è qui, nella prima metà del Seicento, che vengono fondati i  tre quarti dei comuni siciliani e moltissimi nuovi borghi. E’ proprio in questo periodo che per cercare di aumentare la produzione  senza impegnarsi nella realizzazione di opere o nell’impiego di nuove tecniche l’aristocrazia tende ad aumentare la superficie di seminato e a stabilire la dimora dei contadini presso i luoghi di produzione; ma, poichè vaste estensioni latifondistiche  sono ancora  assolutamente disabitate, al processo brevemente descritto sopra si accompagna la comparsa di nuovi centri rurali, necessari per potere realizzare la contiguità tra le abitazioni degli agricoltori e le terre da coltivare. Inoltre, la creazione di un nucleo abitativo ben definito, lontano dalla dimora del feudatario, sottolinea la differenza tra classe nobiliare  e classe contadina.

I borghi nati in quel periodo condividono con i borghi rurali del periodo fascista la caratteristica di essere (prevalentemente) città di fondazione. Il feudatario intenzionato a fondare nuovi centri abitati doveva chiedere al sovrano la licentia populandi,  ottenuta la quale aveva la facoltà di fondare, in territorio feudale (non in quello demaniale), un nuovo borgo , sul quale esercitava  il potere del mero et mixto imperio. Il borgo veniva elevato al rango di comune qualora il numero di famiglie residenti superasse le 80 unità.

Il feudatario aveva il massimo interesse a che ciò avvenisse; ragion per cui gran parte dei borghi fondati allora sono divenuti comuni e costituiscono gran parte dei paesi dell’interno della Sicilia. In alcuni di essi l’impianto urbanistico centrale è conservato, e molti celebrano tuttora la concessione della licentia populandi che condusse alla fondazione del borgo e quindi della cittadina.
Ad esempio, per Sant’angelo Muxaro la licentia risale al 28 aprile 1507, per Valledolmo la licentia fu rilasciata il 17 agosto del 1650, per Villarosa il 10 aprile del  1762; tutti questi sono noti centri dell’entroterra siciliano. Vi sono però dei casi in cui alla fondazione del borgo non seguì la sua evoluzione in cittadina;  ed è così possibile farsi un’idea riguardo a quello che fosse l’aspetto originario dei centri.

Carcaci

Uno di questi è Carcaci, frazione di Centuripe, in provincia di Enna, al confine con la provincia di Catania; può essere facilmente raggiunto percorrendo la SS 575. In realtà, i primi insediamenti nel luogo ove adesso sorge Carcaci sono normanni, e risalgono all’XI secolo; la licentia populandi fu però ottenuta nel 1631 da Gonsalvo Romeo Gioieni, ed è a quella data che risale il borgo. Questo  si sviluppa, a Sud del Castello, lungo una strada che unisce due piazze.  La prima, ottagonale,  costituiva l’accesso al borgo, ed oggi si trova praticamente sulla Strada Statale 575; questa esegue una curva su quello che una volta era uno dei “canti” della piazza di accesso al borgo.  In corrispondenza di uno degli angoli dalla parte opposta dell’imboccatura della strada principale vi è un abbeveratoio

ed all’altro sono visibili dei ruderi. Subito dietro il monumentale ingresso costituito dai “canti” rimasti,  la strada è fiancheggiata da stalle sulla destra

 e da antiche abitazioni, tra le quali si trova la chiesetta originaria, sulla sinistra

 Sebbene in corrispondenza di uno dei canti residui adesso si trovi un bar, e quello a destra sia spesso parzialmente nascosto da autovetture (quando non da trattori) ivi parcheggiate

 il contrasto tra ciò che resta della piazza e le costruzioni lungo la strada risulta, ancora oggi, stridente.  Ed è forse a motivo di tale contrasto che, successivamente, una chiesa più grande, anch’essa dall’aspetto monumentale, a pianta ottagonale

venne costruita in corrispondenza della seconda piazza, dalla quale si diparte la strada di accesso verso il Castello. Altre costruzioni, ormai completamente in rovina, si trovano a Sud della strada principale. Questa era pavimentata con ciottoli, anche se ormai, della pavimentazione, ne sono visibili solo residui

La torre normanna a base quadrangolare che avrebbe costituito l’insediamento originale è stata inglobata nel castello





ed è quindi attualmente inaccessibile




L’aspetto non è quindi variato di molto rispetto a quello che il borgo doveva avere nel XVII secolo. Ed ora come allora, gli arnesi da lavoro al termine della giornata rimangono sul bordo della strada lungo i muri esterni delle abitazioni; solo il loro aspetto è diverso


Sebbene Carcaci sia riuscito a divenire comune autonomo (e lo restò fin poco dopo l’unità d’Italia),  il numero massimo di abitanti fu di circa 250 nella seconda metà del diciottesimo secolo. Pertanto, il nucleo urbano non si espandette mai; la pianta è rimasta quindi quella di  trecentocinquanta anni fa , e, come dicevo sopra, questo può dare un’idea di come tali centri apparissero all’inizio della loro storia 

Il diciottesimo secolo

A metà del diciassettesimo secolo cominciano a verificarsi condizioni che condurranno ad un altro periodo di grande crisi, economica e politica, alla fine della quale la Sicilia entrerà a far parte del Regno delle Due Sicilie con Carlo III di Borbone, nel 1738 (di fatto, nel 1735). Continuano, in questo periodo,  le fondazioni di borghi, ma secondo un processo differente.

Si diffonde infatti, presso la nobiltà siciliana,  la moda delle residenze in campagna  munite di baglio fortificato, che svolgono anche funzione di masseria. Le costruzioni del baglio che danno sulla strada vengono date in gabella per uso come taverne o forni, e vengono dati in gabella anche i poderi. Spesso le mura esterne del baglio o della villa padronale vengono utilizzate come parte del muro perimetrale delle nuove costruzioni, in questo modo:

 Ciò richiama altre famiglie per cui vengono costruite altre case coloniche intorno. Nascono così altri borghi, che evidentemente non sono città di fondazione.

 Probabilmente, l’aspetto iniziale di questi centri sarebbe stato simile a quello odierno di Xirbi

  Xirbi 

 
 
Nel comprensorio di Petralia Soprana vi sono diversi borghi nati in quel periodo; non sempre le abitazioni si trovavano a ridosso del baglio, ma spesso sorgevano ad una certa distanza, anche se vicine tra loro.

Borgo Verdi

 Borgo Verdi ad esempio è collegato al baglio Pottino, ma fisicamente ne è distanziato da più di un chilometro. Il borgo si sviluppa lungo un'unica strada

lastricata, che comunica con la statale ad ambedue le estremità. Ad una di esse vi è il monumento commemorativo a Epifanio Li Puma


 (che però era nativo di Raffo, altro piccolo centro rurale a poca distanza, dove vi è una miniera di sali potassici dell'Italkali). L'aspetto del borgo è molto gradevole con le abitazioni in pietra poste praticamente tutte su un lato della strada lastricata




 E' normalmente popolato.

Altri borghi della zona  sembrano disconnessi dalla presenza di bagli o masserie. Ad esempio


Borgo Guarraia

probabilmente è anche uno dei più belli



Anche questo si sviluppa prevalentemente su un asse





Parte delle costruzioni sono in cattivo stato. All'ingresso, oltre all'abbeveratoio




vi è una sorta di piazzetta rotonda alla quale si accede con dei gradini





Borgo Salerna

invece forse come estetica risulta uno dei peggiori. Da un lato della statale vi è un edificio rurale, moderno, mentre dall'altra parte una ripida stradina sale verso il resto delle abitazioni. Le case, affollate in alto, presentano diversi elementi moderni aggiunti che, indubbiamente utili per chi vi abita, peggiorano comunque l’aspetto  del borgo



L’aspetto generale non dovrebbe essere molto dissimile da quello originale; le case sono in gran parte abitate.

Probabilmente, il periodo in cui sono sorti può essere grosso modo individuato dall’anno di costruzione della chiesa di Fasano, 1798



Scurati
 
Una menzione particolare merita qui Scurati, non tanto (o non soltanto) per la sua storia, quanto per la peculiarità dell'ubicazione.

Anzi, per essere precisi, la menzione riguarda la grotta Mangiapane, una delle grotte che si aprono sul versante Ovest di Monte Cofano, a poche centinaia di metri dal centro di Scurati.



La grotta, larga quindici metri e con una volta che nel punto di maggior elevazione supera i settanta metri, ha fornito rifugio all'uomo preistorico sin dai tempi del Paleolitico Superiore; ma non sta qui la sua peculiarità



All'inizio del diciannovesimo secolo, un gruppo familiare (i Mangiapane) fece della grotta la propria residenza, ma non utilizzandola come tale, bensì edificando delle costruzioni all'interno di essa



successivamente, il minuscolo villaggio si espandette verso l'esterno della grotta



L'espansione, a giudicare dalle date incise su un paio di abitazioni dovrebbe aver avuto luogo verso la metà del diciannovesimo secolo





Nonostante non abbia motivo di dubitare che la costruzione delle case all'esterno della grotta risalga al periodo indicato, nutro qualche dubbio riguardo all'autenticità delle incisioni; sebbene è probabile che rispecchino comunque la verità, sono più propenso a credere che siano state aggiunte in tempi molto più recenti.

Il villaggio rimase popolato fino al secondo dopoguerra; ma anche dopo, non è mai divenuto completamente abbandonato.

Il luogo, oltre ad aver svolto il ruolo di set cinematografico per due episodi della fortunata serie televisiva "Il commissario Montalbano", è il teatro del presepe vivente di Custonaci nel periodo natalizio, e sede di un museo vivente nel periodo estivo.

Ho voluto menzionare la grotta Mangiapane più per la peculiarità dell'insediamento che per la stretta attinenza con l'argomento, in quanto la nascita del villaggio avvenne con modalità lievemente difformi da quelle descritte prima


Gli effetti finali non risultano comunque dissimile dai precedenti, in quanto tutti comunque esitano, oltreché nella  proliferazione dei borghi, in un esodo dalle città verso la campagna, effetto che più tardi avrebbe ricercato il Fascismo con ogni mezzo, ma senza riuscirvi.


Non sembra però che tale situazione, alla lunga, abbia apportato significativi miglioramenti alla condizione rurale. La popolazione non cresce di numero, ed i borghi sono autosufficienti dal punto di vista alimentare; così, le vendite, e quindi i consumi e conseguentemente gli introiti, non possono incrementarsi. La nobiltà latifondista torna allora a sfruttare pesantemente la classe contadina, aumentando gli affitti (e favorendo così i gabelloti) e mettendo in atto una serie di restrizioni nei confronti di coloro che non possono pagare. Di fatto, un ritorno alla servitù della gleba.



LA VIA DEI BORGHI.1: la mafia, il latifondo e la questione meridionale



Io sono “uno che impara”. Spero, Lettore, che questa affermazione non ti sembri una forma di immodestia. Non lo è. Non aggiungo alcun avverbio al verbo “imparare”. Non voglio dire qui che sono uno che “impara velocemente”, “impara facilmente” o comunque impara con modalità più efficienti della media delle persone. 
 Forse sono anche più lento o più stupido della media. Voglio solo dire, qui, che qualunque cosa mi succeda lascia una traccia. Che quasi tutte le persone che ho incontrato nella mia vita mi hanno trasferito qualcosa. Spesso inconsapevolmente, a volte loro malgrado. Magari ho appreso meno da chi si poneva come insegnante, segnandone comunque il fallimento come tale. Ed a volte ho appreso moltissimo da chi cercava di guardarsi bene dall’insegnarmi qualcosa; se vogliamo, un fallimento anche quello. Ma si possono contare sulle dita di una mano coloro che sono riusciti a non insegnarmi alcunché; o, se si ponevano in veste di insegnanti, che non sono riusciti ad insegnarmi alcunché. 

Tra questi, vi è il professore di Storia e Filosofia del liceo. Quando penso alla sua esistenza nella mia vita dal punto di vista culturale, vedo una sorta di buco nero, un’entità fisica che riceve senza trasmettere, dalla quale non può arrivare alcun segnale. Ma alla sua persona associo anche un’espressione: “questione meridionale”.  Non saprei spiegarTi il perché, Lettore, di tale associazione mentale; più volte questa espressione mi venne detta, ma non mi fu mai spiegato cosa sottintendesse. Capivo da me che riguardasse la differenza di condizioni tra Settentrione e Meridione e il relativo, notevole, sottosviluppo del secondo rispetto al primo; ma non capivo il perché occorresse farne una questione. Dopotutto, la storia delle due regioni era diversa, diversa l’evoluzione, e conseguentemente diverso il risultato finale; ritenevo solo ci fosse da lavorare per eliminare il divario, colmare le lacune, recuperare il tempo perduto e valorizzare ciò che di buono si potesse trovare nel Mezzogiorno d’Italia.
Mi stupivo del fatto che ancora  questo processo non fosse stato portato a termine, e non ne capivo il motivo; adesso ho invece le idee più chiare. Asserire che ne ho capito le motivazioni sarebbe una millanteria, ancora un’espressione di immodestia; però posso affermare di aver compreso almeno in cosa consista la “questione”. Ho capito che essa è legata alla mafia ed al latifondo, e che vi sono diverse vedute riguardo all’origine, sia in termini causali sia temporali, di come e quando questione meridionale e latifondo abbiano avuto inizio; ed ho capito anche che tali diverse vedute sono strettamente legate alla collocazione politica. Come è quindi logico aspettarsi, le diverse vedute divergono progressivamente quando vengono descritti e valutati avvenimenti e fatti più recenti, mentre tendono a coincidere nell’esposizione degli eventi remoti. Ho cercato allora di darmi una visione più obiettiva possibile, e vorrei esporla qui. Le conclusioni a cui sono giunto sono però estremamente negative. E’ mia opinione che questione meridionale e mafia rappresentano problemi irrisolvibili ed ineliminabili; ma mi riferisco esclusivamente alla Sicilia, non al resto del Meridione. Infatti, sembra esistere una “questione siciliana” in seno alla questione meridionale; e ciò trova conferma anche nel fatto che anche le misure prese nel deprecato Ventennio, e volte a rilanciare l’agricoltura, furono diverse per la Sicilia rispetto a tutte le altre regioni. Riguardo al latifondo, considerarlo nelle vicende contemporanee è semplicemente anacronistico. In passato ha avuto importanza fondamentale nel determinare la questione meridionale, però nella situazione odierna il suo ruolo è stato assunto da altre entità (beni o servizi) che presentano caratteristiche di maggiore attualità; ma i meccanismi che stanno alla base delle questioni non cambiano, e non cambieranno mai.

Tuttavia, è proprio dal latifondo che vorrei iniziare.

Viene spesso sostenuto che l’origine del latifondo siciliano non sia feudale, ma risalga alla conquista da parte dei Romani. Quando la Sicilia divenne provincia romana, non fu messa in pratica la “centuriazione” che prevedeva la divisione delle terre in lotti di terreno relativamente piccoli da assegnare a singoli agricoltori.  I siciliani costituivano popolazione sottomessa, e non cittadini romani; e i pochi che riuscivano a sottrarsi a tale condizione  divenivano briganti. Vastissimi appezzamenti erano dati a pochi signori romani, e coltivati a grano o utilizzati come pascoli; inoltre, la sfrenata deforestazione avvenuta nel corso delle guerre puniche aveva cambiato il volto del’isola.


C’è chi vuole far risalire a tali eventi l’esistenza del latifondo, del brigantaggio e della questione meridionale. Ma a me questa è sembrata una posizione ardua da sostenere. Nell’827 inizia l’invasione araba in Sicilia, che verrà completata solo nell’878 con la caduta di Siracusa. Gli Arabi domineranno la Sicilia per più di 250 anni, e durante questo periodo il latifondo verrà, almeno parzialmente, smembrato. Il governo musulmano infatti esproprierà gran parte dei latifondi rendendo demaniali le terre o distribuendole ai contadini in enfiteusi. Inoltre il sistema ereditario arabo è tale per cui l’eredità può venire trasmessa ai figli in parti uguali o alle figlie in misura di metà rispetto ai figli maschi, e addirittura agli ascendenti. Ma soprattutto vige il diritto di “vivificazione delle terre morte”(ihya al-mawat); nel caso specifico,  diviene proprietario colui che coltiva o rende fruttuosa la terra improduttiva attraverso il proprio lavoro.
Tutto ciò, insieme all’abilità araba nel realizzare sistemi di irrigazione e nel diversificare le colture, ed unito al fatto che la civiltà araba privilegiava la vita cittadina, condusse alla frammentazione dei latifondi e al sorgere di diversi piccoli nuclei urbani. 

Il latifondo ritorna con la venuta dei Normanni in Sicilia. Durante la conquista Normanna, si instaura il sistema feudale, in ritardo rispetto al resto d’Europa ove anzi si vedono i primi segni del suo declino. Ed il  diritto normanno non prevede la possibilità di divisione o di alienazione del possesso, e la trasmissione ereditaria avviene ad un unico erede, solitamente il primogenito; ciò in pratica si traduce nella ricomparsa del latifondo, e nel mantenimento, nel tempo, della sua integrità. Inoltre, il risultato della politica interna normanna impedisce l’emersione di una classe imprenditoriale-borghese che entrando nel vivo della politica statale eviti l’emanazione di leggi che tendano a mantenere i privilegi dei feudatari. Infine, Federico III introduce l’ereditarietà anche per le cariche statali, solitamente ricoperte da nobili; questo dà ancora alla nobiltà ancora più potere. Il feudatario  esercita all’interno dei confini feudali il potere del mero et mixto imperio, cioè amministra la giustizia civile e penale secondo leggi proprie. L’amministrazione della giustizia penale può arrivare a comprendere anche lo ius necis, e cioè il diritto da parte del feudatario di comminare la pena di morte. Tale diritto era solitamente riservato al Re, che poteva però trasferirlo al nobile al quale avesse delegato l’esercizio del potere del mero et mixto imperio

 Il potere del feudatario poteva pertanto divenire, localmente, anche  superiore a quello del re, per cui non solo i contadini, da sempre servi della gleba, ma anche i cittadini potevano trovare più conveniente rivolgersi al “signore” anziché all’autorità precostituita.

 Alla morte di Federico III ha inizio una lotta tra fazioni nobiliari contrapposte, che perdura durante l’avvicendarsi di diversi regnanti, l’ultimo dei quali è Federico IV, Questi muore dopo quarant’anni esatti dalla morte di Federico III; l’esito di tale situazione è il Vicariato, durante il quale la Sicilia viene governata da vicari scelti tra i baroni. E questo si riflette in un arresto del progresso, una regressione del livello di civiltà della popolazione, e poi in un nuovo miglioramento delle condizioni di vita che  tuttavia così risulta in ritardo di centinaia di anni rispetto a quello europeo.  E questo divario andrà accentuandosi nel corso dei secoli a venire. Io credo che sia proprio qui che  la “questione meridionale” moderna  abbia inizio, anche se alcuni vogliono farla iniziare prima, altri dopo (addirittura con la fine del regno dei Borbone).

Intorno al XV secolo, fa la sua comparsa la figura del “gabelloto”, che diverrà il riferimento per chi sta sotto di lui, e che farà da tramite con il “signore”. Ma il suo potere sarebbe nullo, se non avesse il pieno appoggio del livello superiore. E fino ad oggi, tale situazione non è cambiata. Cambiano i nomi, non le situazioni.

 Ed è qui che si pongono le basi per la condizione che ha permesso alla “questione meridionale” di giungere irrisolta fino ai nostri giorni. La società siciliana è dicotomica: da un lato pochi nobili, ricchi, con ogni privilegio. Dall’altro la popolazione, povera, costretta ad un lavoro durissimo solo per cercare di sopravvivere. E nessun altro strato sociale nel mezzo, che non sia quello costituito dagli emissari dei primi per continuare a soggiogare i secondi. E poiché questa situazione ai primi risulta estremamente vantaggiosa, non faranno mai nulla per cambiarla. Anzi, faranno di tutto perché non cambi.

E questa, Lettore, è l’origine della mafia. Ma non della mafia intesa come associazione a delinquere (quella verrà molto più tardi), ma intesa come mentalità. Perché in realtà, la mafia intesa come associazione a delinquere non avrebbe nulla di diverso dalle altre espressioni della criminalità organizzata. La mafia paragonabile ad una setta segreta, con un suo codice d’onore,  è un’invenzione, un’opera teatrale. Lo è nel senso letterale del termine.  Su quale sia l’etimologia della parola “mafia” vi è diversità di vedute; quello che è certo è originariamente stava ad indicare una qualità positiva, in senso estetico o altro, che desse a chi ne era dotato una posizione di spicco. E’ dal 1863 che il termine ha assunto il significato odierno, quando a Palermo venne data alle scene una commedia popolare, “li mafiusi della Vicaria”, che narra di detenuti nel carcere della Vicaria (l’odierno Ucciardone) di cui alcuni, dotati di un codice d’onore, avevano una posizione di spicco rispetto ad altri. Ma questa è finzione teatrale. Non mi è mai stato chiaro che onore possa esservi nel chiamare qualcuno che sta lavorando duramente e sparargli in faccia a lupara, nello sciogliere nell’acido un ragazzino, nell’estorcere a qualcuno denari guadagnati onestamente. Questi sono omicidi, vendette, estorsioni, che qualunque delinquente al mondo ha sempre condotto e continua a condurre, con l’abilità di cui è capace e la moralità che lo contraddistingue. La differenza tra i mafiosi e gli altri delinquenti non sta affatto in loro; sta nell’ambiente in cui agiscono. Un ambiente fatto di clientelismo da un lato, e dall’assenza dell’autorità precostituita dall’altro. E’ dalla metà del 1300 che il siciliano ha trovato più redditizio chiedere ad un delinquente “amico” di intercedere per lui piuttosto che rivolgersi ad uno Stato inesistente. E questa situazione perdura fino ai giorni nostri. La mafia non è un’associazione a delinquere: la mafia è una mentalità, che consente all’associazione a delinquere di ottenere certi risultati in un certo modo. L’associazione a delinquere  è solo il braccio armato della mafia. Quando durante il regime fascista il prefetto Mori fu inviato in Sicilia per combattere la mafia sembrò ottenere notevoli risultati, in quanto gli atti criminosi si ridussero; quando Mori giunse a quello che ora verrebbe chiamato “secondo livello” fu allontanato. Prima che gli passasse per la testa di giungere al terzo. I fenomeni “mafiosi” rimasero quiescenti fin dopo la caduta del fascismo; il ripresentarsi della mafia con l’avvento della repubblica ha trovato numerose spiegazioni, di cui molte fanno capo all’occupazione  statunitense della  Sicilia. I fatti contingenti saranno senz’altro quelli. Ma il punto cruciale è che Mori non aveva mai sconfitto la mafia; aveva sconfitto la delinquenza. Una volta mutate le condizioni per cui la situazione precedente poteva essere ripristinata, lo fu. E questo avverrà sempre fin quando il singolo cittadino, trovandosi nella condizione di dover scegliere se sia meglio solidarizzare con un potente oppure con le istituzioni, troverà dentro di sé un motivo, qualunque motivo, per optare per il primo comportamento e non per il secondo. E questo non potrà mai avvenire fin quando uno Stato giusto ed equo non mostrerà la sua presenza costante. Per inciso, Lettore, uno stato “equo” non è sicuramente quello che in sei mesi rende miserabili un paio di milioni di cittadini con nuove tasse, e rifiuta di rivedere gli emolumenti dei propri rappresentanti.

Spero che scuserai, Lettore, la mia disamina frettolosa, superficiale, approssimativa e magari inesatta degli eventi; non sono un esperto di Storia adesso come non lo ero al Liceo. Ciò che mi premeva sottolineare era il nesso tra latifondismo e questione meridionale, mediato dalla mentalità mafiosa che ha finito per divenire patrimonio culturale di ogni abitante dell’isola. Ma non avevo alcuna pretesa di essere rigoroso, in quanto non ne ho né la veste né le competenze; eppoi, volevo solo parlare di borghi. Cerco quindi di ritornare sull’argomento.