sabato 22 dicembre 2012

LA VIA DEI BORGHI.1: la mafia, il latifondo e la questione meridionale



Io sono “uno che impara”. Spero, Lettore, che questa affermazione non ti sembri una forma di immodestia. Non lo è. Non aggiungo alcun avverbio al verbo “imparare”. Non voglio dire qui che sono uno che “impara velocemente”, “impara facilmente” o comunque impara con modalità più efficienti della media delle persone. 
 Forse sono anche più lento o più stupido della media. Voglio solo dire, qui, che qualunque cosa mi succeda lascia una traccia. Che quasi tutte le persone che ho incontrato nella mia vita mi hanno trasferito qualcosa. Spesso inconsapevolmente, a volte loro malgrado. Magari ho appreso meno da chi si poneva come insegnante, segnandone comunque il fallimento come tale. Ed a volte ho appreso moltissimo da chi cercava di guardarsi bene dall’insegnarmi qualcosa; se vogliamo, un fallimento anche quello. Ma si possono contare sulle dita di una mano coloro che sono riusciti a non insegnarmi alcunché; o, se si ponevano in veste di insegnanti, che non sono riusciti ad insegnarmi alcunché. 

Tra questi, vi è il professore di Storia e Filosofia del liceo. Quando penso alla sua esistenza nella mia vita dal punto di vista culturale, vedo una sorta di buco nero, un’entità fisica che riceve senza trasmettere, dalla quale non può arrivare alcun segnale. Ma alla sua persona associo anche un’espressione: “questione meridionale”.  Non saprei spiegarTi il perché, Lettore, di tale associazione mentale; più volte questa espressione mi venne detta, ma non mi fu mai spiegato cosa sottintendesse. Capivo da me che riguardasse la differenza di condizioni tra Settentrione e Meridione e il relativo, notevole, sottosviluppo del secondo rispetto al primo; ma non capivo il perché occorresse farne una questione. Dopotutto, la storia delle due regioni era diversa, diversa l’evoluzione, e conseguentemente diverso il risultato finale; ritenevo solo ci fosse da lavorare per eliminare il divario, colmare le lacune, recuperare il tempo perduto e valorizzare ciò che di buono si potesse trovare nel Mezzogiorno d’Italia.
Mi stupivo del fatto che ancora  questo processo non fosse stato portato a termine, e non ne capivo il motivo; adesso ho invece le idee più chiare. Asserire che ne ho capito le motivazioni sarebbe una millanteria, ancora un’espressione di immodestia; però posso affermare di aver compreso almeno in cosa consista la “questione”. Ho capito che essa è legata alla mafia ed al latifondo, e che vi sono diverse vedute riguardo all’origine, sia in termini causali sia temporali, di come e quando questione meridionale e latifondo abbiano avuto inizio; ed ho capito anche che tali diverse vedute sono strettamente legate alla collocazione politica. Come è quindi logico aspettarsi, le diverse vedute divergono progressivamente quando vengono descritti e valutati avvenimenti e fatti più recenti, mentre tendono a coincidere nell’esposizione degli eventi remoti. Ho cercato allora di darmi una visione più obiettiva possibile, e vorrei esporla qui. Le conclusioni a cui sono giunto sono però estremamente negative. E’ mia opinione che questione meridionale e mafia rappresentano problemi irrisolvibili ed ineliminabili; ma mi riferisco esclusivamente alla Sicilia, non al resto del Meridione. Infatti, sembra esistere una “questione siciliana” in seno alla questione meridionale; e ciò trova conferma anche nel fatto che anche le misure prese nel deprecato Ventennio, e volte a rilanciare l’agricoltura, furono diverse per la Sicilia rispetto a tutte le altre regioni. Riguardo al latifondo, considerarlo nelle vicende contemporanee è semplicemente anacronistico. In passato ha avuto importanza fondamentale nel determinare la questione meridionale, però nella situazione odierna il suo ruolo è stato assunto da altre entità (beni o servizi) che presentano caratteristiche di maggiore attualità; ma i meccanismi che stanno alla base delle questioni non cambiano, e non cambieranno mai.

Tuttavia, è proprio dal latifondo che vorrei iniziare.

Viene spesso sostenuto che l’origine del latifondo siciliano non sia feudale, ma risalga alla conquista da parte dei Romani. Quando la Sicilia divenne provincia romana, non fu messa in pratica la “centuriazione” che prevedeva la divisione delle terre in lotti di terreno relativamente piccoli da assegnare a singoli agricoltori.  I siciliani costituivano popolazione sottomessa, e non cittadini romani; e i pochi che riuscivano a sottrarsi a tale condizione  divenivano briganti. Vastissimi appezzamenti erano dati a pochi signori romani, e coltivati a grano o utilizzati come pascoli; inoltre, la sfrenata deforestazione avvenuta nel corso delle guerre puniche aveva cambiato il volto del’isola.


C’è chi vuole far risalire a tali eventi l’esistenza del latifondo, del brigantaggio e della questione meridionale. Ma a me questa è sembrata una posizione ardua da sostenere. Nell’827 inizia l’invasione araba in Sicilia, che verrà completata solo nell’878 con la caduta di Siracusa. Gli Arabi domineranno la Sicilia per più di 250 anni, e durante questo periodo il latifondo verrà, almeno parzialmente, smembrato. Il governo musulmano infatti esproprierà gran parte dei latifondi rendendo demaniali le terre o distribuendole ai contadini in enfiteusi. Inoltre il sistema ereditario arabo è tale per cui l’eredità può venire trasmessa ai figli in parti uguali o alle figlie in misura di metà rispetto ai figli maschi, e addirittura agli ascendenti. Ma soprattutto vige il diritto di “vivificazione delle terre morte”(ihya al-mawat); nel caso specifico,  diviene proprietario colui che coltiva o rende fruttuosa la terra improduttiva attraverso il proprio lavoro.
Tutto ciò, insieme all’abilità araba nel realizzare sistemi di irrigazione e nel diversificare le colture, ed unito al fatto che la civiltà araba privilegiava la vita cittadina, condusse alla frammentazione dei latifondi e al sorgere di diversi piccoli nuclei urbani. 

Il latifondo ritorna con la venuta dei Normanni in Sicilia. Durante la conquista Normanna, si instaura il sistema feudale, in ritardo rispetto al resto d’Europa ove anzi si vedono i primi segni del suo declino. Ed il  diritto normanno non prevede la possibilità di divisione o di alienazione del possesso, e la trasmissione ereditaria avviene ad un unico erede, solitamente il primogenito; ciò in pratica si traduce nella ricomparsa del latifondo, e nel mantenimento, nel tempo, della sua integrità. Inoltre, il risultato della politica interna normanna impedisce l’emersione di una classe imprenditoriale-borghese che entrando nel vivo della politica statale eviti l’emanazione di leggi che tendano a mantenere i privilegi dei feudatari. Infine, Federico III introduce l’ereditarietà anche per le cariche statali, solitamente ricoperte da nobili; questo dà ancora alla nobiltà ancora più potere. Il feudatario  esercita all’interno dei confini feudali il potere del mero et mixto imperio, cioè amministra la giustizia civile e penale secondo leggi proprie. L’amministrazione della giustizia penale può arrivare a comprendere anche lo ius necis, e cioè il diritto da parte del feudatario di comminare la pena di morte. Tale diritto era solitamente riservato al Re, che poteva però trasferirlo al nobile al quale avesse delegato l’esercizio del potere del mero et mixto imperio

 Il potere del feudatario poteva pertanto divenire, localmente, anche  superiore a quello del re, per cui non solo i contadini, da sempre servi della gleba, ma anche i cittadini potevano trovare più conveniente rivolgersi al “signore” anziché all’autorità precostituita.

 Alla morte di Federico III ha inizio una lotta tra fazioni nobiliari contrapposte, che perdura durante l’avvicendarsi di diversi regnanti, l’ultimo dei quali è Federico IV, Questi muore dopo quarant’anni esatti dalla morte di Federico III; l’esito di tale situazione è il Vicariato, durante il quale la Sicilia viene governata da vicari scelti tra i baroni. E questo si riflette in un arresto del progresso, una regressione del livello di civiltà della popolazione, e poi in un nuovo miglioramento delle condizioni di vita che  tuttavia così risulta in ritardo di centinaia di anni rispetto a quello europeo.  E questo divario andrà accentuandosi nel corso dei secoli a venire. Io credo che sia proprio qui che  la “questione meridionale” moderna  abbia inizio, anche se alcuni vogliono farla iniziare prima, altri dopo (addirittura con la fine del regno dei Borbone).

Intorno al XV secolo, fa la sua comparsa la figura del “gabelloto”, che diverrà il riferimento per chi sta sotto di lui, e che farà da tramite con il “signore”. Ma il suo potere sarebbe nullo, se non avesse il pieno appoggio del livello superiore. E fino ad oggi, tale situazione non è cambiata. Cambiano i nomi, non le situazioni.

 Ed è qui che si pongono le basi per la condizione che ha permesso alla “questione meridionale” di giungere irrisolta fino ai nostri giorni. La società siciliana è dicotomica: da un lato pochi nobili, ricchi, con ogni privilegio. Dall’altro la popolazione, povera, costretta ad un lavoro durissimo solo per cercare di sopravvivere. E nessun altro strato sociale nel mezzo, che non sia quello costituito dagli emissari dei primi per continuare a soggiogare i secondi. E poiché questa situazione ai primi risulta estremamente vantaggiosa, non faranno mai nulla per cambiarla. Anzi, faranno di tutto perché non cambi.

E questa, Lettore, è l’origine della mafia. Ma non della mafia intesa come associazione a delinquere (quella verrà molto più tardi), ma intesa come mentalità. Perché in realtà, la mafia intesa come associazione a delinquere non avrebbe nulla di diverso dalle altre espressioni della criminalità organizzata. La mafia paragonabile ad una setta segreta, con un suo codice d’onore,  è un’invenzione, un’opera teatrale. Lo è nel senso letterale del termine.  Su quale sia l’etimologia della parola “mafia” vi è diversità di vedute; quello che è certo è originariamente stava ad indicare una qualità positiva, in senso estetico o altro, che desse a chi ne era dotato una posizione di spicco. E’ dal 1863 che il termine ha assunto il significato odierno, quando a Palermo venne data alle scene una commedia popolare, “li mafiusi della Vicaria”, che narra di detenuti nel carcere della Vicaria (l’odierno Ucciardone) di cui alcuni, dotati di un codice d’onore, avevano una posizione di spicco rispetto ad altri. Ma questa è finzione teatrale. Non mi è mai stato chiaro che onore possa esservi nel chiamare qualcuno che sta lavorando duramente e sparargli in faccia a lupara, nello sciogliere nell’acido un ragazzino, nell’estorcere a qualcuno denari guadagnati onestamente. Questi sono omicidi, vendette, estorsioni, che qualunque delinquente al mondo ha sempre condotto e continua a condurre, con l’abilità di cui è capace e la moralità che lo contraddistingue. La differenza tra i mafiosi e gli altri delinquenti non sta affatto in loro; sta nell’ambiente in cui agiscono. Un ambiente fatto di clientelismo da un lato, e dall’assenza dell’autorità precostituita dall’altro. E’ dalla metà del 1300 che il siciliano ha trovato più redditizio chiedere ad un delinquente “amico” di intercedere per lui piuttosto che rivolgersi ad uno Stato inesistente. E questa situazione perdura fino ai giorni nostri. La mafia non è un’associazione a delinquere: la mafia è una mentalità, che consente all’associazione a delinquere di ottenere certi risultati in un certo modo. L’associazione a delinquere  è solo il braccio armato della mafia. Quando durante il regime fascista il prefetto Mori fu inviato in Sicilia per combattere la mafia sembrò ottenere notevoli risultati, in quanto gli atti criminosi si ridussero; quando Mori giunse a quello che ora verrebbe chiamato “secondo livello” fu allontanato. Prima che gli passasse per la testa di giungere al terzo. I fenomeni “mafiosi” rimasero quiescenti fin dopo la caduta del fascismo; il ripresentarsi della mafia con l’avvento della repubblica ha trovato numerose spiegazioni, di cui molte fanno capo all’occupazione  statunitense della  Sicilia. I fatti contingenti saranno senz’altro quelli. Ma il punto cruciale è che Mori non aveva mai sconfitto la mafia; aveva sconfitto la delinquenza. Una volta mutate le condizioni per cui la situazione precedente poteva essere ripristinata, lo fu. E questo avverrà sempre fin quando il singolo cittadino, trovandosi nella condizione di dover scegliere se sia meglio solidarizzare con un potente oppure con le istituzioni, troverà dentro di sé un motivo, qualunque motivo, per optare per il primo comportamento e non per il secondo. E questo non potrà mai avvenire fin quando uno Stato giusto ed equo non mostrerà la sua presenza costante. Per inciso, Lettore, uno stato “equo” non è sicuramente quello che in sei mesi rende miserabili un paio di milioni di cittadini con nuove tasse, e rifiuta di rivedere gli emolumenti dei propri rappresentanti.

Spero che scuserai, Lettore, la mia disamina frettolosa, superficiale, approssimativa e magari inesatta degli eventi; non sono un esperto di Storia adesso come non lo ero al Liceo. Ciò che mi premeva sottolineare era il nesso tra latifondismo e questione meridionale, mediato dalla mentalità mafiosa che ha finito per divenire patrimonio culturale di ogni abitante dell’isola. Ma non avevo alcuna pretesa di essere rigoroso, in quanto non ne ho né la veste né le competenze; eppoi, volevo solo parlare di borghi. Cerco quindi di ritornare sull’argomento.

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