Da poco meno di quattro anni, ai malati di sclerosi multipla (o sclerosi a placche, o SM) sembra di scorgere un chiarore lì, in fondo al tunnel buio della malattia. http://www.blogger.com/img/blank.gifIl chiarore ha anche un nome, e si chiamerebbe CCSVI, acronimo che starebbe per Chronical CerebroSpinal Venous Insufficiency, Insufficienza Venosa Cronica Cerebro Spinale. Anzi, per essere più precisi, CCSVI sarebbe il nome del “buio” nel tunnel, mentre il chiarore sarebbe rappresentato dall’angioplastica percutanea (PTA); ed il portatore di tale fiaccola assume nome e sembianze del prof. Paolo Zamboni.
Inizialmente, ciò che era stato detto era, in pratica, che la causa della sclerosi multipla era praticamente stata trovata, e che era eliminabile, ed il messaggio (non così tanto subliminale, poi) che veniva trasmesso era che l’eliminazione della causa, sebbene probabilmente non in grado di far regredire totalmente i sintomi della malattia, soprattutto se in stato avanzato, ne avrebbe comunque sicuramente arrestato la progressione. Più recentemente, dopo un primo entusiastico impeto, ufficialmente ci si è assestati su posizioni più possibiliste e moderate; ma il messaggio è rimasto il medesimo.
Il presente post vorrebbe effettuare una rapida revisione degli eventi passati e della condizione presente, allo scopo di verificare se il messaggio che tuttora viene trasmesso abbia una base scientifica o meno
Desidero precisarti però, Lettore, che comunque è principalmente questo post a non avere per sé alcuna pretesa di rigore scientifico. Quanto riportato è una semplice descrizione dei fatti, sebbene non acritica, e pertanto, non troverai riferimenti bibliografici qui; sono sicuro che, se vorrai, sarai perfettamente in grado di risalire ai lavori originali da cui certe informazioni sono state tratte. Ciò che farò sarà semplicemente quello di verificare se il modo in cui si è evoluta e sta ancora evolvendo la vicenda abbia seguito e segua, o meno, la strada del rigore scientifico. Nessuna conclusione verrà fornita; sarai Tu, come al solito, a decidere come ritieni che stiano le cose.
Dalle statistiche di accesso al blog so che vi sono alcuni Lettori (pochi) che accedono ad esso periodicamente. Se Tu non dovessi annoverarti tra loro, ma dovessi essere giunto qui indirizzato da un motore di ricerca, forse troveresti utile leggere alcune considerazioni sul metodo scientifico che puoi trovare qui, e questo non perché la mia opinione al riguardo rivesta chissà quale importanza, ma soltanto perché ciò può rendere molto più semplice la comprensione di ciò che leggerai nel prosieguo.
THE BIG IDEA
Nel novembre del 2006 viene pubblicato sul Journal of the Royal Society of Medicine un articolo a firma del prof. Paolo Zamboni dal titolo: The Big Idea: Iron-dependent inflammation in venous disease and proposed parallels in multiple sclerosis. In esso (basato sui contenuti di una conferenza che lo stesso prof. Zamboni aveva tenuto quattro mesi prima nel corso di un meeting organizzato dalla medesima società), egli prende in considerazione l’insufficienza venosa cronica (IVC o in inglese CVI – Chronic Venous Insufficiency) degli arti inferiori, cercando di mettere in relazione la classificazione CEAP con le cause dell’insufficienza venosa, e descrivendo sommariamente i modelli teorici, basati sulle acquisizioni più recenti, che descriverebbero i meccanismi che conducono alla comparsa delle manifestazioni cliniche della IVC degli arti inferiori, con particolare riguardo al ruolo dei depositi di ferro.
Riporta quindi delle osservazioni personali relative ad anomalie del deflusso venoso dalle regione cervicoencefalica in soggetti con sclerosi multipla. Compara i reperti istologici che si rilevano nella IVC degli arti inferiori con quelli osservabili nei soggetti affetti da sclerosi multipla. Sottolinea la relazione di contiguità tra vasi venosi e placche della sclerosi multipla. Ipotizza un’alterazione della Barriera EmatoEncefalica causata dal processo infiammatorio previsto dal modello della IVC negli arti. Conclude che vi sono diverse similitudini tra le due condizioni, degne di ulteriori approfondimenti.
In pratica, il professor Zamboni ha l’intuizione (the Big Idea, appunto) che la Sclerosi Multipla potrebbe essere una manifestazione di insufficienza venosa cronica a carico del sistema nervoso così come edema, pigmentazioni, dermatite ed ulcere sono manifestazioni di insufficienza venosa cronica a carico delle gambe. Ed adotta un modello teorico analogo a quello adottato per le gambe, che descrive il modo in cui le alterazioni del sistema venoso conducono alle alterazioni istologiche osservabili. E poiché intuizione e modello teorico sono le prime fasi con le quali il metodo scientifico indaga, afferma la necessità di proseguire su questa strada, per confermare o negare l’intuizione.
L’EMODINAMICA VENOSA INTRACRANICA
Meno di un anno dopo il professor Zamboni, in collaborazione con altri sei ricercatori, pubblica sulla rivista Current Neurovascular Research un articolo dal titolo Intracranial Venous Hemodynamics in Multiple Sclerosis. In questo lavoro vengono arruolati 89 soggetti consecutivi affetti da sclerosi multipla e 60 soggetti sani, e ne viene esaminato il flusso venoso intracranico con ecoDoppler transcranico. Per ognuno di essi viene rilevato il flusso in corrispondenza di almeno una delle vene cerebrali profonde e del seno trasverso, verificando se sia monodirezionale (assenza di reflusso), bidirezionale (reflusso di durata <0.5s) o se vi sia inversione di flusso (reflusso di durata >0.5 s). Sulle vene cerebrali profonde viene inoltre determinata la velocità massima e minima di flusso, e sulla base di esse viene calcolato un indice di resistenza, che viene posto in relazione con un’ipotetica impedenza al deflusso.
In nessuno dei soggetti sani viene rilevato reflusso sulle vene cerebrali profonde, mentre solo nel 7% di essi viene rilevato in corrispondenza del seno trasverso; nei soggetti malati le percentuali sono, rispettivamente, 38 e 51. Poiché al reflusso corrispondono, in pratica, velocità minime negative, ciò contribuisce, secondo gli Autori, ad incrementare l’impedenza al deflusso venoso nei malati. Essi considerano quindi tale condizione equivalente all’insufficienza venosa cronica degli arti, ed auspicano che vengano condotti ulteriori studi sulle vie di deflusso extracraniche.
Per inciso, Zamboni e collaboratori calcolano un indice di resistenza che, per convenzione, è denominato indice di impedenza venosa; però essi affermano che le velocità negative (reflusso) rilevate hanno un’influenza sulla misurazione dell’impedenza venosa di cui l’indice di resistenza è espressione. L’indice di resistenza venosa è il rapporto tra la differenza tra velocità massima e minima, e la velocità massima. Se Tu, Lettore, non dovessi avere idea di cosa in effetti sia l’impedenza, puoi provare (se non hai pretese di rigore matematico) a dare un’occhiata al mio post qui, e potrai capire da solo come l’indice di resistenza non possa avere nulla a che vedere con l’impedenza.
Ed ancora, alla fine dello studio, viene affermato che “E’ stato dimostrato su un modello emodinamico che un indice di resistenza maggiore di 1, come quello rilevato nel nostro studio sulle vene cerebrali profonde, è altamente predittivo di stenosi vascolare critica”. Il modello emodinamico cui viene fatto riferimento (è di Ilse Van Tricht) è un modello meccanico di accesso vascolare (come quello, ad esempio, per emodialisi) che prevede una comunicazione tra arteria e vena. L’indice di resistenza citato, quindi, è un indicatore della resistenza arteriosa a valle, e nel modello di Ilsa Van Tricht risulta predittivo di stenosi di un vaso irrorato da flusso arterioso, in cui il flusso è generato da onde di pressione prodotte a monte dal cuore (o, nel caso del modello citato, da un simulatore di pompa cardiaca, Harvard 1423 per la precisione); ed i risultati non sono assolutamente applicabili ad un sistema in cui le onde di pressione vengono generate in tutt’altro modo
Non vorrei che questo suonasse come una critica allo studio in toto. E’ solo perchè è giusto essere chiari riguardo a come stanno le cose. Probabilmente, le affermazioni, le enunciazioni e le citazioni inesatte e superflue peggiorano la qualità di uno studio anziché dargli un’aura di scientificità
L’INSUFFICIENZA VENOSA CEREBROSPINALE CRONICA
A due anni di distanza dal primo lavoro scientifico, il professor Zamboni pubblica sul Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry (appartenente al gruppo del British Medical Journal) in collaborazione con altri sette ricercatori, un lavoro scientifico nel quale vengono descritti gli studi condotti sulle vie di deflusso extracraniche, come auspicato nel lavoro di un anno prima; in esso vengono poste le basi per la definizione di Insufficienza Venosa Cerebrospinale Cronica. La pubblicazione è di sole sette pagine, bibliografia compresa, e ricca di fotografie, tabelle e disegni, e quindi non sembrerebbe contenere chissà quale mole di dati; ma in realtà mettere insieme tutto ciò deve essere stato “un gran lavoraccio”. Infatti, sono stati esaminati in singolo cieco ben 300 soggetti, sottoposti sia ad ecoDoppler transcranico, sia ad ecocolorDoppler dei vasi del collo, secondo una procedura molto più lunga della precedente. Inoltre più di un terzo di essi (113 soggetti) è stato sottoposto ad esame flebografico,metodica invasiva e non di immediata realizzazione (occorre un minimo di preparazione chirurgica, esami di laboratorio, la presenza dell’anestesista, etc,). Se si considera che tutto ciò doveva già essere stato portato a termine ben prima della pubblicazione sul JNNP, in quanto il lavoro costituì l’oggetto della tesi di specializzazione del dott. Zuolo nell’Anno Accademico 2007-2008, si ha un’idea di quanto alacremente si sia lavorato a tale progetto.
Il gruppo di lavoro si avvale di cinque parametri (destinati a divenire quindi “criteri diagnostici”) rilevabili con ecocolorDoppler. Risulta evidentissima la stretta correlazione tra la presenza dei criteri e quella della malattia, ma ciò che appare davvero impressionante è la quasi totale assenza dei medesimi criteri nelle persone sane.
La flebografia selettiva mostra la presenza di vie di deflusso anomale nei soggetti erano presenti almeno due criteri su cinque (in pratica, nei malati, considerato che nei soggetti sani ciò non si rileva mai); ma, cosa che ai fini della presente discussione è molto più importante, dimostra anche che a monte dei restringimenti patologici delle vene la pressione venosa è aumentata rispetto ai soggetti sani. Questo ha delle importantissime implicazioni terapeutiche, perché abolendo il restringimento, la pressione dovrebbe abbassarsi riportando l’emodinamica venosa in una situazione paragonabile a quella dei soggetti che non hanno la malattia. Per quel che concerne la presente discussione, invece, ciò è particolarmente importante in quanto in diretta relazione con il concetto di insufficienza venosa cerebrospinale.
L’EVOLUZIONE
E’ ovvio che quanto descritto accenda le speranze dei malati e l’interesse delle associazioni che li riuniscono. E’ ovvio che accenda anche diversi interessi di altra natura, come per esempio quello che l’assessorato regionale siciliano esternava al prof. Zamboni con la comunicazione prot. 0541 del 15 febbraio 2010, nella quale viene specificamente menzionato l’interesse “a formare alcuni specialisti all’utilizzo di tale nuova metodica” regolamentando l’accordo tramite la stipula di protocollo d’intesa. Posizione questa non in linea con quella che il Consiglio Superiore di Sanità avrebbe adottato un anno dopo, ma in compenso perfettamente in linea con politica e principi che hanno ispirato la Regione Sicilia negli ultimi due anni e mezzo, sia per ciò che riguarda la sanità, sia per tutte le altre cose.
Due anni più tardi, però, uno studio, non in cieco, eseguito da F. Doepp in collaborazione con altri quattro ricercatori, non mostrava alcuna differenza significativa riguardo alla presenza dei criteri tra i soggetti malati e quelli sani. A conclusioni analoghe giungeva F. Baracchini con altri cinque ricercatori, l’anno successivo, con uno studio in cieco. E nello stesso anno anche Zivadinov, con un grosso studio multicentrico in cieco, confermava tale situazione.
Pertanto, nella seduta del 25 febbraio del 2011, il Consiglio Superiore di Sanità non ha riconosciuto l’Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale come entità nosologica, e di conseguenza non ne ha riconosciuti nessi causali con la sclerosi multipla. Ha quindi ritenuto necessario che tutte le procedure chirurgiche relative alla correzione della cosiddetta Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale venissero realizzate nell’ambito di studi clinici controllati e randomizzati, e che rispondano a determinati requisiti; e ciò, evidentemente, per evitare che le persone ammalate, rincorrendo vane speranze siano oggetto di attività speculative.
La Società Italiana di Angiologia e Patologia Vascolare ha scritto una lettera aperta al Consiglio Superiore di Sanità riconoscendone la correttezza delle deduzioni ma criticandone la posizione, sostenendo che,poiché i pazienti desiderano essere diagnosticati e trattati per l’Insufficienza Venosa Cronica Cerebrospinale a prescindere dalla riconosciuta validità delle procedure diagnostiche e terapeutiche, vi era comunque una domanda, che a questo punto sarebbe stata soddisfatta da strutture private. Ciò avrebbe aggravato il problema relativo alla tutela dei malati; quindi sarebbe stato auspicabile ripristinare la situazione precedente che consentiva al medico di struttura pubblica qualificata di erogare la prestazione sotto la propria responsabilità.
Bada bene Lettore: nella comunicazione del Consiglio Superiore di Sanità non è mai stata menzionata alcuna differenza tra strutture pubbliche o private. Le strutture private non sono mai state sollevate dall’obbligo di adottare i vincoli ritenuti necessari dal Consiglio. La comunicazione, in pratica, ribadiva la necessità di un approccio realmente scientifico al problema. Ma perché mai il Consiglio avrebbe sentito questo bisogno?
LA CONDIZIONE ATTUALE
L’Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale era già stata comunque riconosciuta come entità nosologica. Anzi, è più corretto dire che le alterazioni anatomiche che si vorrebbe fossero causa della condizione indicata come “Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale” sono state riconosciute tra le patologie malformative. Ovviamente, ciò non implica che siano effettivamente causa di insufficienza venosa. Ed a maggior ragione, non significa che siano la causa della sclerosi multipla. Ma è stato possibile aggirare il problema del vincolo posto dal Consiglio Superiore di Sanità e riprendere i trattamenti: si sta trattando una malformazione, e non la sclerosi multipla. Le linee guida dell’International Union of Angiology relativo alle malformazioni venose, contenute in un documento di consenso redatto nel 2009 (Vol. 28, no. 6), asseriscono che la maggior parte delle malformazioni venose di piccole dimensioni ed asintomatiche andrebbero trattate con la semplice osservazione, o il trattamento compressivo. E le malformazioni in questione sono piccole; e se non sono responsabili della SM, che sintomi darebbero mai? Allora, perché trattarle con l’angioplastica? Perché l’indicazione al trattamento è specifica per le lesioni “ostruenti il deflusso ed i drenaggio di organi vitali (ad esempio fegato, encefalo)”; ma come si fa a stabilire se una determinata malformazione stia davvero ostruendo “il deflusso ed il drenaggio”? Tra i redattori del documento di consenso vi è il prof. Zamboni e quindi vi sono chiaramente i suoi lavori tra i riferimenti bibliografici. Abbastanza stranamente, il suo lavoro più noto e più discusso, quello che tratta della “liberazione” nella sclerosi multipla, il cui riferimento bibliografico è al numero 203, sembra venga citato sempre a sproposito nel documento.
L’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, dopo un iniziale ottimismo ha ritenuto di dover adottare un atteggiamento più cauto rispetto ai primi entusiasmi. Ha finanziato una sperimentazione multicentrica in cieco, condotta su un numero davvero elevato di pazienti. E’ verosimile che qualcosa di definitivo potrà venire da essa. E questo è veramente positivo e forse anche veramente risolutivo. Per quel che riguarda gli interessi perseguiti dalla società, ovviamente. Ma il punto che sto discutendo qui non è affatto questo.
Nell’ottobre del 2011, Laupacis ed altri pubblicavano una metanalisi eseguita sui lavori fino ad allora pubblicati. Trovavano una correlazione tra la presenza dei criteri e quella della malattia, ma con disomogeneità inspiegabili. In certi lavori, le anomalie venose sono presenti in tutti i malati ed in nessun individuo sano. In altri, non vi è la benché minima differenza. Ciò che contribuisce a far comparire la correlazione è il numero dei soggetti trattati: se in uno studio che ha arruolato diverse centinaia di pazienti si trova una forte correlazione, questo da solo controbilancerà diversi studi nei quali la correlazione non c’è ma che comprendono pochi soggetti. Ma questo non contribuisce a chiarificare il quadro, anzi.
Nell’ambito di un singolo studio, i risultati sono coerenti. O si trova un’alta correlazione, oppure essa è nulla. Ciò che lascia profondamente perplessi è l’incoerenza tra gli studi. Se vi è un nesso causale tra le anomalie e la malattia, esse in qualche misura devono essere presenti in tutti (o quasi- potrebbero non essere state rilevate, in rari casi) i soggetti malati. Vi possono essere diverse spiegazioni della loro presenza nei soggetti sani, ma questo ha meno importanza: è la variabilità tra i malati che sembra inspiegabile. Se le malformazioni venose sono causa di insufficienza venosa, e questa è causa della SM, come fanno ad ammalarsi i soggetti che non ne hanno? Un’ipotesi può essere quella di Zivadinov: le anomalie venose non sono la causa, bensì la conseguenza della malattia. Questo spiega la correlazione tra le anomalie e la malattia, e potrebbe anche spiegare la variabilità; ma allora, a che servirebbe trattarle, e con una tecnica invasiva come l’angioplastica? A questo forse darà risposta lo studio multicentrico CoSMo (è quello finanziato dall’AISM) , che così risolverebbe se non la questione scientifica, almeno quella clinica. Vi sarebbero però delle possibilità alternative. Una di queste sarebbe, ad esempio, il fatto che l’insufficienza venosa sia una concausa della malattia. Questo spiegherebbe non solo la correlazione tra le anomalie e la malattia da un lato, e l’assenza di esse in molti malati dall’altro, ma anche la presenza delle anomalie nei soggetti sani, che in assenza delle altre cause non svilupperebbero la malattia.
Un’altra sarebbe, il fatto che le anomalie venose non siano l’unica causa di insufficienza venosa. Ed anche questo spiegherebbe la correlazione tra le anomalie e la malattia da un lato, e l’assenza di esse in molti malati dall’altro; i malati senza anomalie venose ma con altre cause di insufficienza venosa si ammalerebbero, ma presenterebbero comunque un sistema venoso normale.
Ma quali potrebbero essere le altre cause che agiscono in sinergia con l’insufficienza venosa? O quali potrebbero essere le altre, diverse, cause dell’insufficienza venosa al di fuori delle anomalie del sistema venoso?
Una diversa causa, o concausa, potrebbe essere rappresentata dall’aumentata permeabilità della Barriera Emato Encefalica che lo stesso prof. Zamboni vorrebbe conseguenza dell’ipertensione venosa. E Marian Simka si chiedeva qualche tempo fa se non fosse opportuno tentare una terapia con farmaci (quali?) in grado di ridurre la permeabilità della BEE, o con altri che interferissero con l’attività delle molecole di adesione.
Ed ancora un aumento della pressione venosa si ha nelle condizioni di insufficienza cardiaca, o, con aspetti e meccanismi diversi, nell’insufficienza tricuspidale.
In realtà, l’importanza fondamentale del lavoro di Laupacis non sta nel verificare se sia giusto o meno eseguire l’angioplastica sui soggetti con SM; a questo penserà lo studio CoSMo. Ma quest’ultimo, comunque andranno le cose, non potrà rispondere all’implicazione contenuta nei risultati del lavoro di Laupacis: tutta la questione, dalla “Big Idea” ai nostri giorni, è stata mai affrontata scientificamente? O vi sono grandi manchevolezze in questo aspetto?
IL METODO SCIENTIFICO E “THE BIG IDEA”
Siamo giunti al punto, Lettore. Questo è l’argomento di cui avrei volto parlare, nonché la causa del precedente sproloquio: sono stati rispettati i passi per indagare la questione con metodo scientifico? Come forse avrai letto qui, non tutti i passi sono perfettamente eseguibili in ogni situazione. Viene portato l’esempio del metodo sperimentale a proposito delle atmosfere stellari, ma vi sono milioni di esempi diversi. Vi sono circostanze nelle quali i passi non possono essere seguiti alla perfezione, e si cercano surrogati, escamotage, stratagemmi per fare salvo il modo scientifico di procedere. Ma che dire quando i passi potrebbero essere seguiti, e ciò non viene fatto? Quando i passaggi opportuni vengono deliberatamente omessi? Quando si evita di porre domande la risposta alle quali consentirebbe di capire anziché provare alla cieca? Quando si eseguono terapie su persone senza avere l’evidenza che ciò che si sta facendo è corretto? Ma soprattutto, perché avviene ciò?
Ripartiamo dall’inizio, dal metodo scientifico e da “The Big Idea”. Il metodo scientifico presupporrebbe un’intuizione, un modello teorico, un modello sperimentale, ed una verifica. Come abbiamo visto, nelle Scienze Biologiche, il modello teorico può essere biologico, biochimico, descrittivo… mentre il modello sperimentale è spesso animale. In Medicina, poi, la verifica deve essere in cieco, e le terapie devono passare al vaglio dell’EBM.
Qui, l’intuizione iniziale c’è: è “the Big Idea”. Nulla da dire su di essa, solo qualche precisazione da fare. La prima “idea”, anche se non sappiamo quanto “big”, di una relazione tra la SM ed il sistema venoso non è del 2006, ma risale a qualche anno prima, 143 per la precisione. La prima “idea” riportata al riguardo fu infatti di un distinto signore che si chiamava Rindfleisch. Rindfleisch è un nome molto noto nell’anatomia patologica umana; le “cellule di Rindfleisch” del tifo, ad esempio, portano il suo nome. Nel 1863, Rindfleisch riportò l’osservazione per cui nei preparati istologici di encefalo umano ove erano presenti piccole placche relative a SM, al centro di ogni placca vi era invariabilmente una vena di piccolo calibro. Questo avrebbe un significato ben preciso. Un preparato da osservare al microscopio su vetrino è assimilabile ad una sezione bidimensionale di una struttura tridimensonale. Se qualcosa comincia a diffondersi uniformemente nel tessuto a partire da un punto, lo fa con simmetria sferica, la cui sezione è circolare. Se qualcosa si diffonde a partire da un vaso cilindrico, la morfologia è teoricamente un ellissoide, la sezione resta circolare, ed al centro vi è la sezione del vaso da cui ha avuto origine la diffusione; qualunque cosa diffonda dal vaso lo fa seguendo la legge di Fick, e la morfologia risulta sempre simile.
Questa osservazione è stata riproposta periodicamente negli anni, anzi nei secoli, e con essa l’ipotesi di un’origine “vascolare” della sclerosi multipla. Anche la risultante di un processo flogistico su base autoimmune seguirebbe una morfologia analoga, per cui da tempo si prendeva in considerazione quest’ultima ipotesi per spiegare l’osservazione.
Di conseguenza, “The Big Idea” non consisterebbe semplicemente nel fatto che il sistema venoso è coinvolto; essa prende in considerazione anche la composizione della placca. Non mette in relazione solo placca e vena, ma anche costituzione della placca e reperti istologici nell’insufficienza venosa degli arti inferiori. Usa i meccanismi che si ritiene siano operanti nell’insufficienza venosa delle gambe per applicarli al Sistema Nerovo centrale. Qui siamo oltre l’intuizione. Siamo al passo successivo. Siamo al modello teorico.
IL CONCETTO DI INSUFFICIENZA VENOSA E LA CLASSIFICAZIONE CEAP
So far, so good, direbbero gli anglosassoni. Il prof. Zamboni usa il modello teorico adoperato per l’insufficienza venosa degli arti applicandolo all’encefalo. E cita la classificazione CEAP a questo proposito.
Sai, Lettore, cos’è la classificazione CEAP? E’ una gigantesca classificazione che si propone di raggruppare tutte le patologie venose conosciute sotto un unico ombrello. Nelle Scienze Biologiche e Naturali, le classificazioni sono molto comuni. Si adoperano nella tassonomia così come nella clinica medica. Perché sono uno strumento di lavoro. Le classificazioni adoperano un criterio per differenziare. Si prende un gruppo di entità che sembrano appartenere ad uno stesso insieme, e si individua un parametro rispetto al quale queste entità sono diverse. Le classificazioni sono sempre esistite, e sono state variate nel corso degli anni in rapporto alle acquisizioni più recenti che riguardano i parametri utilizzati per fare la differenza. In medicina, ciò è successo spesso nel campo delle neoplasie ematologiche, ad esempio. Le classificazioni di linfomi e leucemie hanno subito poderosi rimaneggiamenti; alle differenze classificative corrispondevano differenze nella prognosi e nella terapia.
La classificazione CEAP ha subito invece poche revisioni con gli anni, e nessuna realmente sostanziale (due, di poco conto, nel 2000); non c’era molto da cambiare nella classificazione CEAP. L’ambizioso progetto di classificare tutte le diverse patologie venose come fossero un’unica cosa prese corpo nel 1994 a Maui.
Vedi, Lettore, se io dovessi mettere insieme un’armata di professoroni per realizzare un progetto importante, li porterei tutti in una casa isolata dell’Alaska, in inverno, non a Maui. In un posto dove non ci sarebbe nient’altro da fare se non occuparsi della classificazione; non in uno dove non vedi l’ora di uscire per andare a spasso tutta la giornata. In una situazione come quest’ultima, il fatto che le persone diano il peggio di se stesse è ciò che ci si aspetta. La classificazione CEAP è una delle cose più stupide della storia della medicina. E’ l’antitesi della classificazione. Si sono prese tutte le diverse patologie venose esistenti, e si sono considerate come se fossero un’unica cosa, una diversa manifestazione della stessa patologia. Per la classificazione CEAP la differenza tra le teleangectasie sulle gambe di una bella donna (quelle che vengono volgarmente chiamate “capillari”. Ma i capillari sono invisibili ad occhio nudo. Occorre il biomicroscopio, ovvero, appunto, “capillaroscopio”), ed una trombosi venosa estesa e potenzialmente letale sta nei pedici da aggiungere alle lettere della classificazione. E’ assimilabile in qualche modo al “grado”, alla gravità della patologia. Non tiene conto del fatto che sono patologie diverse, con cause diverse, conseguenze diverse, modi diversi di rilevarle, e le cui rispettive terapie sono lontane anni luce. Il concetto di “insufficienza venosa” non è contemplato nella classificazione CEAP; perchè in essa tutto è insufficienza venosa. Anche le teleangectasie (i “capillari”).
E ciò non deve sorprendere. La classificazione CEAP non solo ha riunito le persone che dovevano occuparsene in un posto come Maui , ma gran parte di queste stesse persone non avevano mai fatto differenza, in vita loro, tra “varici"”ed “insufficienza venosa”. Loro chiamavano già da prima “insufficienza venosa” anche le telangectasie (sempre i “capillari”).
Invece, in questo caso la chiarezza al riguardo è fondamentale. La stessa chiarezza che viene adottata sempre in medicina, ma in altre situazioni.
Il mio vocabolario della lingua italiana, sempre un vecchio Zingarelli edizione 2001, dà la seguente definizione di insufficienza in medicina:
Riduzione dell'attività di un organo al di sotto dei livelli minimi richiesti per mantenere l'equilibrio dell'organismo
Quindi, in medicina, quando si parla di insufficienza di un organo, si fa riferimento all’insufficienza di una funzione relativamente alle necessità dell’organismo. Questo ha due implicazioni:
1) ci deve essere un parametro che indica la compromissione. Questo spesso può essere misurato
2) deve esserci un’evidenza del fatto che la compromissione è di tale entità da rendere la funzione non più sufficiente a mantenere l’equilibrio dell’organismo.
Per l’implicazione 2), non esistono parametri misurabili, e questo per due motivi. Il primo è che le necessità del singolo organismo riguardo alla funzione non possono essere quantificate. Il secondo è che nello stesso organismo, le necessità possono variare grandemente a secondo delle condizioni. D’altra parte, se l’organismo non riesce a mantenere il suo equilibrio, questo è evidente: compare la malattia. Quindi, l’evidenza dell’insufficienza è un’evidenza clinica.
E poichè spesso lo stato di insufficienza è relativo alle condizioni, sono allora state sviluppate delle classificazioni che consentono di quantificarne grossolanamente l’entità sulla base delle manifestazioni cliniche in diverse condizioni.
Ad esempio, la funzione del cuore è quella di pompare (è così davvero, Lettore, con buona pace di Marinelli che invece sostiene che “il cuore non è una pompa”, ed il sangue va avanti per i fatti suoi). Se la sua capacità di pompare è insufficiente ai bisogni dell’organismo, si parla di insufficienza cardiaca. Magari la funzione di pompa è sufficiente se uno deve camminare; ma se è richiesto uno sforzo maggiore (ad esempio, salire le scale) la funzione cardiaca diviene insufficiente. La New York Heart Association ha così sviluppato una classificazione dell’insufficienza cardiaca divisa in classi (dette appunto classi NYHA) che consente di quantificare grossolanamente il deficit. E di verificare se uno migliora o peggiora con le cure.
Lo stesso concetto vale per il rene, il fegato, le arterie… da cui insufficienza renale, epatica, arteriosa… etc.
Lo stesso deve avvenire per il sistema venoso. Allora la prima cosa da fare è stabilire qual è la funzione delle vene. La seconda, individuare un parametro che ne indichi la compromissione. La terza è stabilire cosa cambia nell’organismo quando la funzione diviene insufficiente.
Abbastanza stranamente, i concetti relativi alle tre cose da fare sono noti da tempo. La funzione delle vene è quella di riportare il sangue al cuore dopo che questo è passato attraverso i capillari. Il sangue, come tutti i fluidi, si muove per gradienti di pressione; quindi se la pressione all’interno delle vene diviene più alta che nei capillari, questo non potrà più muoversi. Il parametro che indica la compromissione della funzione venosa è allora la pressione venosa. Se la pressione venosa diviene troppo elevata, non solo il sangue non potrà ritornare dai capillari, ma il liquido filtrato dai capillari non potrà venire riassorbito, e con esso altre sostanze. Si veriificherà quello che si chiama “edema”, e le altre sostanze finite nel tessuto sottocutaneo resteranno lì. Queste sono le manifestazioni di insufficienza venosa. Nelle gambe, vederle è facile. Non ci sono strumenti per verificarle, basta semplicemente guardare (per chi sa quello che sta facendo, ovviamente). Nella scatola cranica, non possiamo. Ma se l’aumento di pressione venosa ha le stesse implicazioni che ha per le gambe, ci aspettiamo che nel cervello succeda la stessa cosa che succede alle gambe. “The Big Idea”, appunto.
IL MODELLO TEORICO
Fin qui, tutto fila liscio, tutto è molto scientifico. Possiamo togliere di mezzo quella inutile idiozia rappresentata dalla classificazione CEAP, e fare riferimento ad un modello teorico vero, scientifico. Possiamo cioè descrivere con un modello, in parte addirittura matematico, cosa accade quando vi è una causa che fa aumentare la pressione venosa. La base per questo modello esiste da più di un secolo, ed è nota come “equilibrio di Starling”; essenzialmente, consiste nella caduta della pressione idraulica lungo i capillari, mentre resta quasi costante la pressione osmotica. La prima tende a far fuoriuscire il liquido dai capillari (quelli veri, non le teleangectasie), la seconda a farlo rientrare dentro. All’inizio del capillare prevale la prima, ed alla fine la seconda. Quindi, il liquido fuoriesce (“filtra”) all’inizio del capillare e rientra (“viene riassorbito”) alla fine. Il modello di Starling descrive questo processo in termini quantitativi, fornendo i valori della pressione. I motivi della caduta di pressione lungo il capillare possono anch’essi essere descritti in termini matematici; non è una cosa complicata, ma non è il caso di farlo qui. Recentemente sono state avanzate delle critiche al modello originario, ma la sostanza non è cambiata.
Se aumenta la pressione venosa, questo aumento si riflette per via retrograda fino alla fine del capillare, per cui alla fine di esso la caduta di pressione risulterà “insufficiente” per riassorbire il liquido filtrato; ecco spiegato il motivo per cui “insufficienza venosa” significa “aumento di pressione venosa”. Ed ecco anche perché “varici” ed “insufficienza venosa” sono due concetti assolutamente diversi, due condizioni assolutamente distinte. Nelle varici (tranne che in casi o in condizioni particolari) spesso non si ha un aumento della pressione venosa trasmessa ai capillari. Ed anche per questo abbiamo, se non esattamente un modello matematico, un modello fisico supportato da dati numerici. Ed anche questo data diversi anni, anche se non un secolo. Venne sviluppato da Roald I. Bjordal all’inizio degli anni settanta. Se cerchi su Wikipedia notizie di Roald Bjordal, non ne troverai, Lettore. Troverai la biografia di Ilona Staller, o dettagliate informazioni sui Pokemon, ma non una parola su chi ha capito come funzionava l’emodinamica venosa; ed anche questo costituisce un segno dei tempi. Bjordal era un chirurgo pediatrico; è deceduto nel 2003. Voleva sapere come variassero le pressioni nei soggetti con malattie delle vene; e poiché non trovò risposte (magari aveva chiesto agli stessi che redassero venticinque anni dopo la classificazione CEAP) , decise di studiare da solo il problema. In seguito al suo lavoro, altri studiarono le variazioni della pressione in diverse malattie delle vene.
Furono questi studi a stabilire delle relazioni tra determinate malattie e l’insufficienza venosa; si classificarono le diverse malattie, si misurarono le pressioni, e si comprese cosa comportasse la malattia e come variasse la pressione. Da allora si seppe perché una determinata malattia dava insufficienza venosa ed un’altra no, perché in una condizione la pressione risultava aumentata in una situazione (ad esempio, soggetto in piedi), mentre in una condizione diversa la pressione risultava aumentata in altre condizioni (ad esempio, soggetto disteso). Poi arrivò la classificazione CEAP a rimescolare tutto, vanificando il lavoro di decenni.
Il professor Zamboni, dopo il riferimento contenuto in “The Big Idea”, sembra però tralasciare (per fortuna) la CEAP; dopo quella volta non ne parla più. E parla invece di “insufficienza venosa” intesa proprio come “incremento della pressione venosa”. Segue, insomma. la correttezza logica e linguistica contenuta nell’antico concetto.
Ci sarebbe però un problema. Tutti gli studi condotti tra l’aurora di Bjordal e l’oscurità della classificazione CEAP riguardano le gambe. I rapporti esistenti tra le singole malattie e le relative variazioni della pressione venosa si riferiscono alle vene degli arti inferiori. Siamo sicuri di poter applicare gli stessi principi al ritorno venoso dalla regione cervico-cefalica? Perché, vedi Lettore, la regione cervico cefalico ha una particolarità: quella di trovarsi gravitazionalmente spesso al di sopra, a volte allo stesso livello, quasi mai al di sotto della valvola tricuspide, che è quella che costituisce lo “zero” idrostatico. In altri termini, la pressione idrostatica a livello della valvola tricuspide è zero. Al di sotto di essa, e quindi anche alle gambe, è pari al peso della colonna d’acqua di lunghezza compresa tra il punto di misurazione e la valvola tricuspide; ma al di sopra di essa, e quindi nella regione cervicocefalica, è negativa. Anche in condizioni normali le pressioni sono diverse, ed il ritorno venoso non funziona allo stesso modo.
Il problema viene risolto, nella condizione che ci riguarda, dal prof. Zamboni nello studio del 2008. Nei soggetti portatori di anomalie venose viene misurata la pressione venose a monte dell’anomalia. E’ aumentata. Le anomalie venose si comportano per il cervello come le patologie trombotiche per le gambe: danno un’insufficienza venosa. Non vi è motivo di dubitare che il prof. Zamboni dica la verità, non vi è motivo di pensare che menta: le anomalie venose causano un aumento della pressione venosa, e sono in qualche modo più frequenti nella SM.
Problema risolto.
Ma ne sorge un altro.
Il passaggio dall’incremento della pressione venosa alle manifestazioni cliniche dell’insufficienza venosa, diverse dall’edema (cioè infiammazione, ulcere, etc,), non è automatico. E’ mediato da una serie di passaggi che coinvolgono leucociti, molecole di adesione, metalloproteine, etc., passaggi peraltro accennati in “The Big Idea” e ripresi in uno studio successivo. Qui il modello non solo non è affatto matematico (cosa di importanza irrilevante) ma è terribilmente fumoso ed intricato (cosa di importanza estremamente rilevante). Alcuni passaggi sono macchinosi, altri speculativi. Comporta la formulazione di ipotesi ad hoc. Insomma, è lungi dall’essere soddisfacente; e stiamo parlando sempre di gambe. Come si può trasferirlo al cervello, dove tra l’altro anche i capillari (sempre quelli veri) hanno caratteristiche diverse? Dove sono diversi i tessuti interstiziali? Dove esiste la Barriera EmatoEncefalica?
Dopo tutto, il cervello ha una serie di meccanismi che lo proteggono, ad esempio, contro gli aumenti della pressione arteriosa. Chi ci dice che meccanismi dalla funzione analoga non siano operanti contro l’insufficienza venosa?
Nessuno, Lettore; ma per risolvere quest’altro problema, possiamo sempre chiamare in aiuto il metodo scientifico
IL MODELLO SPERIMENTALE
Se dovessi aver dato un’occhiata a quanto riportato qui a proposito del metodo scientifico, forse ricorderai quanto affermavo a riguardo del modello sperimentale, e cioè che la sua validità viene verificata dalla possibilità di fare previsioni (dove, evidentemente, per “previsione” si intende la possibilità di riprodurre sul modello una risposta alle sollecitazioni analoga a quella del sistema che il modello intende riprodurre), e che per quel che riguarda i sistemi umani il modello è spesso animale. Nel caso specifico, ciò significherebbe che dovrebbe essere possibile riprodurre le lesioni istologiche corrispondenti alla sclerosi multipla su un modello animale di insufficienza venosa cronica cerebrospinale.
Molto più difficile sarebbe la creazione di un modello sul quale riprodurre gli effetti della terapia; ma ci si potrebbe chiedere: esistono dei meccanismi biologici in grado di eliminare gli effetti dell’aumento di pressione venosa?
Magari, forse, questo modello sarebbe già disponibile in natura. Come illustrato qualche riga più sopra, la pressione venosa, in assenza di altre condizioni che tendano a farla variare, è equivalente a quella idrostatica, prendendo la valvola tricuspide come riferimento. E quindi nel distretto cervicoencefalico sarebbe negativa, divenendo positiva ogni volta che ci mettiamo a testa in giù. Rimanendo a testa in giù, quindi, saremmo affetti da un’insufficienza venosa “funzionale” nella regione cervico-cefalica; nulla ci sarebbe di anomalo nel nostro sistema venoso, ma sommeremmo la pressione idrostatica ai fattori che determinano la pressione venosa. Ma di solito non stiamo a testa in giù.
Eppure, Lettore, c’è un mammifero che passa a testa in giù circa la metà della sua vita. Perché ai pipistrelli non viene la sclerosi multipla? Perché hanno dei meccanismi particolari che consentono loro di evitare comunque che la pressione si innalzi? Oppure semplicemente perché l’aumento di pressione non è la causa della SM?
Bè, avere la risposta a questa domanda non è così semplice. Bisognerebbe studiare e conoscere a fondo il sistema circolatorio dei pipistrelli. Una cosa tanto difficile quanto inusuale.
Però, Lettore, per quanto inusuale sia, c’è una persona che fa esattamente questo. Si chiama Christopher Quick, ed è professore associato presso la Texas A&M University. Ma questo, Lettore, per quanto inusuale sia, è il meno. Il più, la stranissima coincidenza, la faccenda più singolare, è il fatto che il professor Quick, prima di occuparsi di pipistrelli alla TAMU, si occupava di emodinamica umana presso il Center of Cerebrovascular Research dell’Università della California di San Francisco. E questa, come coincidenza, è davvero sorprendente: una persona che si occupava prima di emodinamica cerebrale umana, si occupa adesso dell’emodinamica dei pipistrelli. Tanto sorprendente che sembrerebbe quasi che io stia raccontando frottole. Ma puoi verificare Tu stesso, Lettore: se fai una ricerca sul Web, puoi facilmente trovare la conferma alle mie parole. Puoi forse addirittura trovare il suo libro in PDF “Integrated Arterial Hemodynamics”.
Un’associazione americana che si occupa della difesa dei pipistrelli vuole intraprendere azioni legali contro il prof. Quick perchè ritiene che le sue ricerche siano crudeli, ed io sono assolutamente d’accordo; ciò non toglie che le sperimentazioni siano comunque state condotte. Se si vuole davvero occuparsi di tale aspetto della biologa degli esseri viventi, e soprattutto di un risvolto di esso così importante per gli esseri umani, perché non coinvolgerlo? Fossi stato io, sarebbe stata una delle prime cose alle quali avrei pensato.
Ma queste sono elucubrazioni personali. Non è detto che le mie idee in proposito siano la maniera più corretta di procedere; anzi, sicuramente non lo sono affatto. Domandarsi perché altre persone non hanno fatto ciò che probabilmente avrei fatto io è stupido, se ciò che avrei fatto io è qualcosa di così particolare come coinvolgere un tizio che studia pipistrelli.
Quindi, la domanda da porsi probabilmente non è “perché non è stato interpellato Christopher Quick?”; la domanda è:
Ma perché mai non esiste un modello animale?
La realizzazione di un modello sperimentale animale per patologie umane è a volte estremamente difficoltosa e scarsamente attendibile. Si pensi alle patologie virali per esempio: è difficile riprodurre su un animale da laboratorio la malattia usando un virus diverso; perché probabilmente l’animale non potrà essere infettato dallo stesso virus che infetta l’uomo. Magari per il secondo è patogeno, e per il primo no; è una situazione frequente.
Ma qui la situazione è diversa. Parliamo di alterazioni che causano un ostacolo al deflusso, e conseguentemente un aumento di pressione nelle vene a monte; una cosa facilissima da riprodurre.
Personalmente, sono contro qualunque forma di maltrattamento degli animali, anche per ricerche “serie”. Penso che ogni specie vada rispettata per quella che è, e che all’interno della stessa specie vadano effettuati i sacrifici per progredire nella conoscenza. Che si sperimentino sul cane i trattamenti per i cani, sul gatto quelli per i gatti, sull’uomo quelle per gli uomini. Molte persone invece uccidono gli animali per il mero piacere di farlo; vanno a caccia, a pesca, spacciando tale piacere per la necessità di nutrirsi, necessità che potrebbero soddisfare con estrema facilità recandosi al negozio sotto casa, dove viene venduto ciò che altri avrebbero ucciso per loro. Ma così facendo mancherebbe il piacere di uccidere; come potrebbe la massa che attende a simili passatempi indignarsi per le vittime della sperimentazione? Sono consapevole che mi sarà praticamente impossibile fare proseliti rimanendo su una simile posizione.
Quindi ogni giorno nel mondo migliaia di animaletti vengono uccisi per eseguire test persino su prodotti cosmetici destinati solo a solleticare la vanità di giovani e meno giovani donne. Perché allora non fare lo stesso per una causa che sembrerebbe ben più nobile? Perché non legare una delle giugulari interne di qualche topino o di qualche coniglietto, e vedere cosa accade a distanza di sei mesi?
Vorrei sottolineare, Lettore, che questa era l’unica cosa ragionevole da fare prima di tutte. Questa non è un’estrosità o un pensiero bislacco come quello di coinvolgere il professor Quick. Questa è l’unica cosa che avrebbe fornito prove valida. L’unica che avrebbe consentito di rispondere con ragionevole certezza alla domanda: “ma sarà poi vero che l’insufficienza venosa cerebrospinale causa la sclerosi multipla?”
Eppure, non si è mai fatto. E se a te, Lettore, capiterà di parlare con chi si occupa di questa faccenda e proverai a fargli questa domanda (io l’ho fatto), è probabile che ti senta rispondere, con aria quasi indignata: “Ma è già stato fatto! Tanti anni fa!”.
E’ una menzogna. Una sporca menzogna, sporca in quanto si cerca di spacciare per sperimentazione nel campo dell’Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale dei lavori che sono tutt’altro.
Nel 1937, Tracy Putnam, rifacendosi alle osservazioni di Rindtfleisch, cercò un nesso qualunque che potesse unire, in qualche modo, il sistema venoso cerebrale alla sclerosi multipla, riuscendo a fabbricare da tessuti estratti da malati di SM, un modello tridimensionale che metteva in relazione spaziale le strutture vascolari con le placche. Successivamente studiò l’anatomia patologica microscopica in diverse patologie che davano lesioni focali disseminate. Alla fine effettuò una sperimentazione su cani iniettando diverse sostanze nel seno longitudinale e facendole progredire per via retrograda fino alle vene cerebrali.
I risultati furono diversi, dipendentemente dal tipo di sostanza utilizzata; alcune lesioni, negli animali vissuti, più a lungo, presentavano alcune caratteristiche comuni con le placche della SM. E le conclusioni cui giunse Putnam furono che l’ostruzione delle piccole vene rappresentava il momento antecedente alla formazione di una placca. Ma non ottenne mai né il quadro clinico, né quello istologico della malattia. Mai.
Né un tale modello è mai stato creato, per quanto fosse facilissimo. Mai
E l’ostruzione delle piccole vene è una condizione che, potenzialmente, si verifica in alcune patologie. Quelle in cui si ha un aumento della viscosità del sangue, ad esempio. O quelle in cui aumenta la coagulabilità, le cosiddette “condizioni trombofiliche”. O quelle in cui l’interno delle vene viene danneggiato in vario modo dallo stesso sistema immunitario, le cosiddette “malattie autoimmuni”
Ma analogamente a quanto avvenuto per le condizioni, diverse dalle patologie venose” nelle quali vi è un incremento della pressione venosa, anche in questi casi non si è provveduto a verificare quale sia la prevalenza della SM. Mai.
Così come Marian Simka ha totalmente abbracciato “the Big Idea” senza mai preoccuparsi o occuparsi della propria idea, quella relativa alla BEE. Mai.
EVIDENCE BASED MEDICINE: LA VERIFICA
Rifacendoci sempre alla sequenza descritta a proposito del metodo scientifico, dopo l’intuizione, il modello teorico e quello sperimentale viene la verifica dei risultati. Ma qui il modello teorico è carente e quello sperimentale manca. Quindi, cosa stiamo verificando? Qui non stiamo applicando un metodo, stiamo parlando della verifica di un’idea, “The Big Idea”, con i metodi dell’EBM. E basta.
Dal punto di vista strettamente pratico, non ci sarebbe nulla di male nel verificare direttamente un’idea, anzi. Certo, la mancanza della teoria e della sperimentazione si concretizzerebbe nella mancanza di conoscenza. Un fallimento scientifico, ma un grande risultato pratico; e la medicina predilige, soprattutto da qualche tempo a questa parte, i risultati pratici.
E d’altra parte, è comprensibile. Alla gente interessa essere curata, non importa un fico secco del come o del perché. Il come ed il perché interessa gli scienziati; bene, che si gingillino come preferiscono, purchè questo non sia di ostacolo agli interessi della gente.
Ma “the Big Idea” è stata davvero verificata con i metodi dell’EBM? Forse a volte sì, altre sicuramente no. Perché, Lettore, la verifica prevedrebbe sperimentazioni in cieco, per le motivazioni esposte a proposito del metodo scientifico. Ed infatti, nel lavoro del 2007, non in cieco, la rilevazione delle anomali venose sia nei malati sia nei sani ha fornito risultati profondamente diversi da quelli ottenuti da altri ricercatori.
In questo momento, non ho modo di sapere come questa storia finirà, quali saranno i risultati definitivi dello studio CoSMo. Se, nonostante la procedura seguita, risulterà che l’Insufficienza Venosa Cronica CerebroSpinale è la causa della SM, che può essere curata con l’angioplastica, e questo brillante risultato sarà stato conseguito senza uccidere animaletti innocenti, io non potrò che essere contento. Per i malati, per i loro familiari e soprattutto per gli animaletti (che in questa storia non c’entrerebbero per niente).
Ma comunque questa storia finirà, puoi sinceramente dire, Lettore, che la cosa sia stata affrontata e condotta seguendo una metodologia corretta?
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