Ma si può adottare un’equilibrata visione globale, né fascista né antifascista, che costituirebbe così un quadro in cui ogni iniziativa presa dal regime, ed ogni fase progettuale troverebbero un loro posto logico, coerente con i discorsi fatti e con la predilezione di Mussolini per la civiltà rurale. E questo spiegherebbe anche, almeno in parte, l’atteggiamento diffuso della popolazione che oggi commette l’Errore, errore storico nell’attribuire al Fascismo anche opere che sono state realizzate successivamente e che con il Fascismo hanno poco a che fare. Questa è una visione soggettiva la cui validità non può essere provata più di quanto non possano essere provate le validità delle posizioni fasciste o antifasciste, ma che risulta verosimile nel momento in cui ci si astrae dall’ideologia e si guarda solo ai fatti senza entrare nel merito (necessariamente parziale) delle intenzioni.
Mussolini ad un tratto, nel bene e nel male, si trova a governare l’Italia, il che vuol dire che si trova ad affrontare tutti i problemi politici, sociali ed economici connessi, e cioè disoccupazione, produttività, bilancia dei pagamenti, e, non ultima la “questione meridionale” in generale e quella siciliana in particolare.
Il problema politico (intendo quello relativo al consenso) viene abilmente risolto con la propaganda, ma gli altri richiedono una risoluzione diversa.
Uno dei modi di risolvere il problema della disoccupazione è quello di impiegare una parte della popolazione nell’edilizia statale. Ciò è risaputo, e vi sono diverse prove documentali che lo testimoniano.
Nel suo “Nel Segno del Littorio”, Liliane Dufour riporta (pagg. 20-22) diversi passi, con relativi riferimenti archivistici, che evidenziano come la realizzazione delle opere pubbliche avesse il dichiarato scopo di alleviare la disoccupazione; e un’interpretazione in tal senso è data anche al fatto che ne “Il Ventennale delle Opere Pubbliche a Palermo” venga specificato, in quasi tutte le voci, il numero di operai impiegato, ed in alcune di esse anche il numero delle ore lavorative.
Nel suo “Nel Segno del Littorio”, Liliane Dufour riporta (pagg. 20-22) diversi passi, con relativi riferimenti archivistici, che evidenziano come la realizzazione delle opere pubbliche avesse il dichiarato scopo di alleviare la disoccupazione; e un’interpretazione in tal senso è data anche al fatto che ne “Il Ventennale delle Opere Pubbliche a Palermo” venga specificato, in quasi tutte le voci, il numero di operai impiegato, ed in alcune di esse anche il numero delle ore lavorative.
Questo era un metodo che presentava degli indubbi vantaggi dal punto di vista sociale:
- poiché gli edifici venivano costruiti principalmente con fondi pubblici, e quindi con le tasse che, almeno in teoria, sarebbero state pagate da chi aveva un (alto) reddito, ma poi ne usufruiva la società intera, esso rappresentava una sorta di redistribuzione del reddito
- esso consentiva la modernizzazione del paese e la creazione di infrastrutture che avrebbero reso migliori e più efficienti i servizi o, addirittura, li avrebbero creati
- l’edilizia è un settore del secondario dipendente da un primario (cave di pietra, di argilla, etc.) che è, in qualche modo, più diffuso di altri che dipendono maggiormente da una geologia peculiare (giacimenti minerari, ad esempio)
- non richiede impianti particolarmente costosi, né competenze particolarmente elevate per le maestranze
- almeno inizialmente, non richiede un “mercato”, ma solo delle (più o meno oggettive) necessità
Riguardo al punto 1) vorrei aggiungere che una delle critiche mosse al metodo è che sia stata una forma di propaganda: populismo. Sicuramente lo è stata, ma è anche vero che furono realizzati tribunali, scuole ospedali, uffici pubblici, impianti sportivi, di cui vi era bisogno e soprattutto vi è bisogno ancora oggi, in quanto ancora oggi ne usufruiamo; e considerati i “tempi antifascisti” delle realizzazioni odierne, se non fossero stati realizzati dal Regime, non avremmo avuto oggi tale possibilità. Ed inoltre la qualità ed i costi sarebbero stati quelli odierni, con una spesa utilizzata solo in piccola parte per realizzazioni, ed in gran parte per “oliare gli ingranaggi” riempiendo le tasche dei politici corrotti e degli imprenditori disonesti. E’ anche possibile che sporadicamente anche allora si sia verificato che certe ditte o certi singoli che avevano avuto l’appalto siano stati favoriti (alla fin fine i nostri politici non hanno inventato niente – neanche questo – limitandosi ad ottimizzare e massimizzare certi perversi meccanismi che sono sempre esistiti); ma il fenomeno era occasionale, e comunque stigmatizzato da chi si occupava della revisione del lavoro compiuto (vedi il già citato volume di L. Dufour, pag. 38)
Il metodo però presentava anche degli svantaggi:
- è comunque un’attività che fa parte del secondario ma non produce beni esportabili
- non è rinnovabile, anzi, nel caso specifico, è “a scadenza”
Relativamente al punto 2) intendo dire che le realizzazioni erano condotte secondo quelli che erano chiamati “tempi fascisti” e cioè con estrema rapidità; ed una volta esaurite velocemente le strutture da realizzare che venivano incontro ad una reale necessità ( in una singola città non si potevano certo costruire tre palazzi di giustizia, cinque palazzi delle poste, venti ospedali e quattrocento scuole), la spinta propulsiva verso l’occupazione si sarebbe arrestata. E vi era la consapevolezza che l’industria non sarebbe stata in grado di risolvere il problema dell’occupazione, dovendo quindi “rassegnarsi a subire un’aliquota più o meno forte di disoccupazione cronica”.
In una simile situazione, il fatto che occorresse trovare un’alternativa è una conseguenza logica. L’agricoltura era perfetta per questo:
- Poteva realizzare una produzione di qualcosa nel Meridione affetto dalla “questione meridionale”
- La risoluzione della questione meridionale in questo modo anziché industrializzando il Sud non avrebbe richiesto onerosi investimenti relativi ad impianti, ingegneri specializzati, trasporti delle materie prime in loco e poi del prodotto, etc., quindi sarebbe stata più rapida e avrebbe comportato meno spese
- L’agricoltura è primario, e, contrariamente a giacimenti, miniere, etc., è un primario espandibile, ed i relativi trasporti costano meno, perché può essere realizzata su un territorio molto più vasto, non legato all’ubicazione geografica del giacimento
- I prodotti agroalimentari in una situazione quale quella dell’Italia tra le due guerre non avrebbero posto problemi di “mercato”; che vi fosse una richiesta era certo
- Avrebbe consentito di ridurre o annullare le importazioni, ad es. di grano, con le quali al momento si doveva soddisfare la richiesta
- la produzione in eccesso avrebbe potuto essere esportata
- Era qualcosa che, specialmente ai tempi, non avrebbe richiesto competenze specialistiche, e avrebbe quindi consentito di soddisfare le aspettative dell’ONC, le cui attività si erano rivolte, dal 1926, ad un indirizzo prevalentemente agrario
- L’occupazione non sarebbe stata “a scadenza”
- Avrebbe realizzato un indotto (edilizia rurale, impianti, trasporti, macchinari, etc.) consentendo di espandere la base occupazionale del secondario collegato
- Avrebbe consentito la realizzazione di quella che evidentemente era l’idea che Mussolini aveva di società, anzi di civiltà
- Avrebbe consentito un maggior controllo sulla popolazione, isolando i contadini nella campagna e creando luoghi di aggregazione ben specifici e controllati (i borghi)
Se tu, Lettore, provi a rileggere il “Il decennale della Legge Mussolini e l’avvenire della bonifica” di Giovanni Volpe (del quale alcuni passi sono riportati da Antonio Pennacchi nel suo libro) potrai renderti conto di come, forse, la mia visione delle cose non sia così lontana dalla realtà.
Ed ancora, sembra anche potersi dedursi che l’idea del Duce, quella alla quale Liliane Dufour si riferisce come “utopia rurale del fascismo”, si rivolga principalmente verso la civiltà, e non verso la società. Cioè l’idea è quella di occuparsi della struttura civile della società, più che dei soggetti che la compongono; il benessere dei soggetti verrebbe forse da sé, scaturendo da una civiltà correttamente e razionalmente organizzata. E se l’onere della realizzazione pratica di tale progetto fosse stato, in alcuni casi, parzialmente sostenuto da privati anche a prezzo di notevoli ingiustizie sociali, il Regime avrebbe “chiuso un occhio” in nome dell’interesse collettivo.
Il Progetto e la sua realizzazione
Nel 1923 viene promulgato il Testo Unico contenente le leggi sulla bonifica (vale la pena di sottolineare qui che garantire le opere necessarie all’approvvigionamento di acqua potabile era parte integrante della bonifica), che classifica i comprensori, ne stabilisce il piano di bonifica, individua i soggetti che ne avrebbero dovuto compiere le relative opere e soprattutto, con l’art. 38, ventila la possibilità dell’esproprio; l’Allegato A contiene l’elenco dei territori interessati dalle opere di bonifica di prima categoria (che presentavano vantaggi igienici o economici di interesse sociale) suddiviso per regione, ma la Sicilia non è presente in tale elenco. L’art. 38 sancisce la possibilità dell’esproprio da parte di concessionari privati per terreni compresi in territori classificati nella I categoria. Nello stesso giorno (30 dicembre 1923) viene promulgato il RD 3267 (Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani), in cui il Titolo I tratta della tutela dei pubblici interessi ed al Capo I viene regolamentata la “limitazione alla proprietà terriera”; anche nel RD 3267, all’art. 79 è prevista la possibilità dell’espropriazione.
L’anno successivo viene varato il decreto sulle trasformazioni fondiarie di pubblico interesse (decreto del 18 maggio, nr 753), che contiene anch’esso norme che rendono possibili gli espropri, regolamentate negli articoli 4,12,13 e 14; in esso non è contenuta alcuna pianificazione quanto piuttosto la regolamentazione in base alla quale la pianificazione avrebbe dovuto essere attuata.
Anche questa legge, come la precedente, si riferisce all’intero territorio italiano; mentre nel novembre del 1925 viene costituito l'Istituto Vittorio Emanuele III per il bonificamento della Sicilia, con lo scopo di "promuovere, assistere ed integrare in Sicilia, ai fini del bonificamento, con particolare riguardo alle trasformazioni fondiarie, l'attività di privati, singoli e associati, coordinandola con quella dello Stato".
Il 1928 sembrerebbe essere un anno cruciale per la ruralizzazione. Sul “Popolo d’Italia” n. 278, del 22 novembre 1928, viene pubblicata la nota “Cifre e deduzioni: Sfollare le città”, nella quale Mussolini afferma “Vi è un terribile circolo vizioso che bisogna spezzare: più case si fanno nelle città e più gente s’inurba, più gente s’inurba - sia pure attraverso l’inferno delle baracche - e più case occorrono. Così si va all’infinito, cioè alle città mostruose”
Nello stesso anno viene pubblicato il RD 2874 “Disposizioni per la disciplina e lo sviluppo delle migrazioni interne”, che è uno dei metodi da utilizzare per interrompere il “terribile circolo vizioso”. Con esso viene modificata la composizione del Comitato per le migrazioni interne, il quale “ha per iscopo di studiare e di proporre i provvedimenti necessari per agevolare, sia in impieghi temporanei, sia in intraprese di colonizzazione, il flusso migratorio dalle Provincie del Regno con popolazione sovrabbondante, verso le Provincie meno abitate del Mezzogiorno e delle Isole, suscettibili di una più alta produzione industriale e terriera”, ed è presieduto dal Ministro o dal Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Al Titolo II, art. 14 si legge:”Quando le opere, per le quali è richiesto largo e continuativo impiego di lavoratori migranti, quali le bonifiche e le grandi trasformazioni fondiarie, le sistemazioni dei corsi d'acqua, la costruzione di gruppi di strade ordinarie e di ferrovie e altre, sono eseguite in località spopolate o malsane, gli alloggiamenti possono avere carattere di stabilità. Le costruzioni sono erette in gruppi, secondo tipi prestabiliti, e in modo tale da essere, a trasformazione o ad opera compiuta, rapidamente adattate a villaggi agricoli, per alloggio delle famiglie coloniche, e in genere per gli usi di campagna”. In teoria, la struttura dei villaggi agricoli sarebbe codificata:” Il preventivo per la costruzione dei villaggi agricoli deve contenere anche le spese per la provvista d'acqua potabile, per le fognature, per la protezione meccanica contro la malaria, per la scuola, per la chiesa, per la caserma dei Reali carabinieri, per l'ambulatorio medico, per il dopolavoro e inoltre le spese per la dotazione di un appezzamento di terreno da destinare a coltivazioni orticole e a frutteto di circa un terzo di ettaro per ciascuna famiglia alloggiata”.
Da qui sembra potersi dedurre che nella fase iniziale della politica di rilancio dell’agricoltura, la permanenza dei coloni nel borgo sia consentita quando non auspicata.
E’ possibile che la realizzazione di villaggi tipo “case cantoniere” conosca un certo sviluppo in virtù della legge 3134 del 1928 “Provvedimenti per la bonifica integrale”, che tra l’altro predetermina il tetto di spesa che lo Stato sosterrà per finanziare le opere di bonifica, con proiezione a 30 anni (fine anni Cinquanta), e che rende tutte le strade costruite nel Meridione “strade di bonifica” qualora siano funzionali alla bonifica stessa. In pratica, in Sicilia tutte le strade provinciali sono da considerarsi strade di bonifica, e quindi le costruzioni edificate ai fini della loro realizzazione sono suscettibili di adattamento a villaggio agricolo. E quindi appare questa l’origine di gran parte dei villaggi tipo “casa cantoniera”, almeno di quelli progettati in funzione della riconversione.
Nel 1933 viene pubblicato il Regio Decreto 13 febbraio 1933, n. 215 (Nuove norme per la bonifica integrale). Probabilmente, sono due le innovazioni introdotte rispetto alla legge precedente di particolare significato nei riguardi della riforma agraria. La prima consiste nei “mutamenti di destinazione dei terreni, necessari all'attuazione del piano stesso, senza che occorra l'osservanza delle norme del titolo I del R. decreto 30 dicembre 1923, n. 3267” (art. 5). La seconda è la possibilità di esproprio per i proprietari inadempienti, contenuta nell’art. 42. Questo è uno degli articoli più discussi, nel senso che per i sostenitori del regime costituisce la dimostrazione dell’esistenza di una politica agraria rivolta al proletariato contadino, mentre per i detrattori si tratta solo di un articolo inserito per motivi propagandistici e che di fatto non è stato mai applicato.
Sebbene una politica di rilancio dell’agricoltura sia stata adottata per l’Italia intera, la ruralizzazione, intesa come processo che mira a spopolare le città e popolare le campagne, è un concetto, in un certo modo, legato maggiormente alla Sicilia, dove ha un chiaro riflesso sull’organizzazione della riforma agraria e sulla struttura che ad essa verrà data dall’ECLS. La motivazione della determinazione e della risolutezza nell’attuazione delle politiche di rilancio, dichiarata dallo stesso Mussolini e sempre sul “Popolo d’Italia”, consiste nel fatto che il contadino inurbato sarebbe retrivo ad abbandonare le abitudini ormai consolidate, e a ritornare ad un tipo di vita che ha più o meno volontariamente abbandonato e nella quale non si riconosce più: “Coloro che da oltre un decennio si sono stabiliti nelle città, anche se lo desiderassero, non potrebbero più tornare, data la rete degli interessi, delle conoscenze, delle parentele nuove che hanno messo nell’ombra le antiche. Solo chi ha ancora la psicologia del rurale può tornare, e sempre è necessario che sia stato pungolato e avvilito da molti anni di disoccupazione e di miseria.”. L’agricoltore era probabilmente già abbastanza “avvilito” dalla disoccupazione, mentre sarebbe stato “pungolato” secondo il principio enunciato sempre sul “Popolo d’Italia” cinque anni prima: ”Occorre facilitare con ogni mezzo e anche, se necessario, con mezzi coercitivi, l’esodo dai centri urbani; difficoltare con ogni mezzo e anche, se necessario, con mezzi coercitivi, l’abbandono delle campagne; osteggiare con ogni mezzo l’immigrazione a ondate nelle città”. In questo si è voluto vedere anche una sorta di meccanismo di controllo sulle masse; il parziale isolamento a cui sarebbero stati costretti i contadini che vivevano in case rurali sparse sul territorio ne avrebbe ostacolato l’aggregazione e l’organizzazione in gruppi, come avvenne a Bronte, o al tempo dei Fasci Siciliani. Ed anche la struttura stessa dei borghi ECLS è coerente con una tale visione.
Sulla Gazzetta Ufficiale del 18 gennaio 1940 viene pubblicata una legge approvata nove giorni prima, riguardante esclusivamente la Sicilia; la differenza fondamentale con le precedenti leggi di riforma agraria si trova nell’articolo 1: “I proprietari di terreni nelle zone della Sicilia ad economia latifondistica, anche se ricadenti fuori dei comprensori di bonifica, hanno I'obbligo di attuare la colonizzazione dei propri fondi con la creazione di unità poderali e la stabilizzazione delle famiglie coloniche sul fondo, conformemente alle prescrizioni del Ministero dell'agricoltura e delle foreste,nei modi e nei termini stabiliti dal Ministero stesso.”
Nell’articolo 2 è invece contenuta la normativa generali sui borghi rurali; in altri termini, vi è il primum movens, la causa di tutto, l’origine della catena di eventi che dopo più di cinquant’anni ha fatto si che io percorressi più di diecimila chilometri per tutta la Sicilia e Tu, Lettore, stia leggendo queste pagine.
Con l’articolo 4 viene istituito l’Ente per la Colonizzazione del Latifondo Siciliano, che, con l’articolo 5, assorbe l'Istituto Vittorio Emanuele III per il bonificamento della Sicilia.
Un’altra differenza fondamentale rispetto alla leggi precedenti si trova, a mio parere, negli articoli dal 6 al 12, con i quali viene data autonomia (rispetto ai proprietari) decisionale all’ECLS sui lavori di bonifica e trasformazione fondiaria da eseguire, e fornendo all’Ente la possibilità di acquisire parte della proprietà dell’immobile come rimborso per i lavori eseguiti.
L’ordinamento dell’ECLS viene definito con il RD del 16 febbraio 1940, nr 247, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22 aprile dello stesso anno. Alla lettera f) dell’articolo 2), e nell’articolo 11, viene decretata la possibilità da parte dell’ECLS di chiedere l’esproprio per quegli immobili che “siano suscettibili di importanti trasformazioni fondiarie o di utilizzazioni industriali strettamente attinenti all’attività agraria dell’Ente”, prescindendo dall’inadempienza dei proprietari. La legge 3 giugno 1940, nr 1078 contiene infine le “Norme per evitare il frazionamento delle unità poderali assegnate a contadini diretti coltivatori” (G.U. 13 agosto 1940), ma l’applicazione di queste è valida per l’intero territorio nazionale. E giunti a questo punto, Lettore, l’Italia è già in guerra.
Ribadisco ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che non sono uno storico e non vi sono mai stati i presupposti per cui potessi diventarlo; ma voglio ugualmente esprimere l’idea generata nella mia mente da quanto ho letto fin qui, e poi riportato in queste pagine. Come in più di un’occasione avevo accennato sopra, la visione di questa sequenza di leggi è considerata da alcuni la prova che il fascismo sia stato particolarmente attento ai bisogni della gente o, almeno, dei contadini; da altri, solo propaganda da dare in pasto alla popolazione. Quando invece, se guardo ai fatti, vedo qualcosa di molto meno ideologico e molto più pratico e banale.
Non mi sembra che il fascismo abbia avuto i caratteri della rivoluzione; ha quelli di un colpo di Stato, tra l’altro condotto in due tempi, che ha consentito a Benito Mussolini di diventare capo del governo ed ai fascisti di governare, e di mantenere tale posizione fin quando è stato possibile. Sono convinto che nella mente del Duce potesse esserci un’idea relativamente precisa di una società ideale, ma l’azione di governo nella pratica è tutta un’altra cosa. Questa doveva essere mirata a cercare di risolvere una serie di problemi, facendo i conti con le risorse disponibili; ed il tentativo di far virare il paese verso una civiltà di tipo rurale era sicuramente visto come una possibile soluzione. Tale viraggio trovava un ostacolo nell’esistenza del latifondo, e nella conduzione di esso da parte dei proprietari. Nel Sud, ed in Sicilia in particolare, la quasi totalità della terra coltivabile era di proprietà di poche persone. Poiché il Fascismo non realizzò una rivoluzione (formalmente, restò fedele allo Statuto Albertino), l’azione iniziale non fu diretta a togliere la proprietà (che datava più di un secolo) o il possesso (che poteva risalire fino a dieci secoli prima) a queste persone ed alle loro famiglie; ma d’altra parte, le terre dovevano venire coltivate. Pertanto, o i proprietari provvedevano, o se ne sarebbe occupato lo Stato. Viste le condizioni in cui versavano i latifondi, non era pensabile iniziare un programma agrario senza le opportune e necessarie bonifiche; e non era possibile realizzarlo senza gli agricoltori.
La sequenza delle leggi promulgate al riguardo sembra la stessa che qualunque governo con un minimo di buonsenso avrebbe adottato: regolamentazione della bonifica e richiesta ai proprietari di farsi parte diligente, conservando la proprietà dei terreni ma adoperandosi affinchè tale proprietà fosse funzionale ai bisogni della nazione. E “funzionali ai bisogni della nazione” sono solo terre bonificate e coltivate da agricoltori. Qualora il proprietario avesse tentato di sottrarsi a quella che era una necessità, lo Stato vi si sarebbe sostituito, sobbarcandosi l’onere delle trasformazioni (bonifica, infrastrutture ed abitazioni per i contadini), ma evidentemente subentrando nel possesso. E, alla fine, il possesso non sarebbe potuto comunque essere lasciato ai privati, almeno per quegli immobili che rivestivano una posizione particolarmente importante ai fini del piano di ruralizzazione. Tale posizione può essere considerata innovativa rispetto a come erano andate le cose durante i precedenti mille anni, ma non riesco a vedere né rivoluzione né propaganda in questo; solo necessità ed un minimo di buonsenso.
L’azione di governo in tal senso in Italia in generale ed in Sicilia in particolare si estrinsecò con diverse modalità che solitamente vengono considerate corrispondenti a successive fasi, descritte in sequenza temporale; ma in realtà alcune di esse coesistettero, sovrapponendosi.
E’ ovvio che, dovendo intraprendere delle iniziative volte a conseguire questo fine ed essendosi svolto tutto nel breve periodo di un ventennio, la pianificazione di esse non poteva essere precedente; ideazione ed attuazione si sono sempre svolte in rapida successione, verificando i risultati in divenire, ed adeguandovi il progetto. Si è quindi assistito ad un’evoluzione che si rispecchia nelle leggi e nell’azione di governo. Ed è proprio questa evoluzione che si estrinseca nelle fasi.
Grosso modo, nell’ evoluzione si potrebbe intravedere la determinazione iniziale della realizzazione, ma ancora priva di una pianificazione a lungo termine e diffusa all’intero territorio nazionale, la quale gradualmente sfocia in una più meticolosa e capillare riorganizzazione di tutto l’assetto rurale che ne coinvolge ogni aspetto, dall’assegnazione dei terreni fino alla realizzazione delle infrastrutture, passando per un urbanesimo progettato ad hoc. L’implicito riconoscimento dell’esistenza di una “questione siciliana” si evince dal passaggio, in Sicilia, dall’applicazione delle medesime leggi formulate per l’intero territorio nazionale, alla necessità della formulazione di normative che riguardarono specificamente la regione.
E mentre si svolgeva l’evoluzione nel processo del tentativo di popolare le campagne, un altro processo seguiva un’evoluzione parallela a quella della ruralizzazione, processo che avrebbe dovuto rappresentarne la controparte per quel che riguardava la struttura stessa della società. Era il processo che mirava a sfollare le città. Tale processo ebbe aspetti peculiari in Sicilia, in quanto l’obiettivo del Regime fu alla fine quello di evitare l’aggregazione dei contadini; e ciò è chiaramente visibile nell’evoluzione delle fasi e nella corrispondente struttura dei borghi. In una prima fase, l’obiettivo di sfollare le città fu quello che apparve prioritario. Poiché si riteneva che sarebbe stato difficile convincere i contadini ad abbandonare i centri abitati, si pensò di poterlo risolvere creando dei nuovi centri, tentativi di “città nuove”, quelle che Antonio Pennacchi definisce “fondazioni”. Ci si rese conto che se i centri avessero assolto alla loro funzione, agendo da nucleo di fondazione per lo sviluppo di una nuova città, questo avrebbe portato semplicemente allo spostamento dei contadini da una città, ad un’altra, nuova, città. Creare dei raggruppamenti più piccoli e più numerosi avrebbe potuto rimediare al problema; tali raggruppamenti sarebbero i “sottoluoghi” di Antonio Pennacchi, che però sono più numerosi di quanto comunemente venga riportato, e sembrerebbero avere un significato più articolato. Anche tale soluzione si rivelò poco efficace, soprattutto in assenza di una reale pianificazione, e di una realizzazione solo parziale dei progetti nei quali detta soluzione si sarebbe dovuta concretizzare. I metodi fin qui adottati erano viziati da una contraddizione di fondo: si cercava di spingere i contadini ad abbandonare le città offrendo loro un surrogato di città, surrogato che inoltre era suscettibile di evoluzione in vera città. Questo, alla lunga, anziché favorire la ruralizzazione avrebbe favorito l’urbanizzazione, creando nuovi centri, e non avrebbe risolto il problema dell’ostacolo all’aggregazione della classe contadina. La soluzione radicale venne con Mazzocchi Alemanni, Caracciolo e l’ECLS. In questa fase, la struttura dei borghi e la distribuzione delle case coloniche sul territorio è progettata applicando la regola ferrea dell’isolamento. E’ la fase delle “città nuove” di Antonio Pennacchi, che però “città”, nelle intenzioni dei progettisti, non sarebbero divenute mai.
Parallelamente a questa evoluzione, vi fu una fase che non subì mai alcun tipo di evoluzione, nella quale la ruralizzazione poteva essere favorita senza preoccuparsi delle aggregazioni degli elementi della classe contadina.
L’ordinamento dell’ECLS viene definito con il RD del 16 febbraio 1940, nr 247, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22 aprile dello stesso anno. Alla lettera f) dell’articolo 2), e nell’articolo 11, viene decretata la possibilità da parte dell’ECLS di chiedere l’esproprio per quegli immobili che “siano suscettibili di importanti trasformazioni fondiarie o di utilizzazioni industriali strettamente attinenti all’attività agraria dell’Ente”, prescindendo dall’inadempienza dei proprietari. La legge 3 giugno 1940, nr 1078 contiene infine le “Norme per evitare il frazionamento delle unità poderali assegnate a contadini diretti coltivatori” (G.U. 13 agosto 1940), ma l’applicazione di queste è valida per l’intero territorio nazionale. E giunti a questo punto, Lettore, l’Italia è già in guerra.
Ribadisco ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che non sono uno storico e non vi sono mai stati i presupposti per cui potessi diventarlo; ma voglio ugualmente esprimere l’idea generata nella mia mente da quanto ho letto fin qui, e poi riportato in queste pagine. Come in più di un’occasione avevo accennato sopra, la visione di questa sequenza di leggi è considerata da alcuni la prova che il fascismo sia stato particolarmente attento ai bisogni della gente o, almeno, dei contadini; da altri, solo propaganda da dare in pasto alla popolazione. Quando invece, se guardo ai fatti, vedo qualcosa di molto meno ideologico e molto più pratico e banale.
Non mi sembra che il fascismo abbia avuto i caratteri della rivoluzione; ha quelli di un colpo di Stato, tra l’altro condotto in due tempi, che ha consentito a Benito Mussolini di diventare capo del governo ed ai fascisti di governare, e di mantenere tale posizione fin quando è stato possibile. Sono convinto che nella mente del Duce potesse esserci un’idea relativamente precisa di una società ideale, ma l’azione di governo nella pratica è tutta un’altra cosa. Questa doveva essere mirata a cercare di risolvere una serie di problemi, facendo i conti con le risorse disponibili; ed il tentativo di far virare il paese verso una civiltà di tipo rurale era sicuramente visto come una possibile soluzione. Tale viraggio trovava un ostacolo nell’esistenza del latifondo, e nella conduzione di esso da parte dei proprietari. Nel Sud, ed in Sicilia in particolare, la quasi totalità della terra coltivabile era di proprietà di poche persone. Poiché il Fascismo non realizzò una rivoluzione (formalmente, restò fedele allo Statuto Albertino), l’azione iniziale non fu diretta a togliere la proprietà (che datava più di un secolo) o il possesso (che poteva risalire fino a dieci secoli prima) a queste persone ed alle loro famiglie; ma d’altra parte, le terre dovevano venire coltivate. Pertanto, o i proprietari provvedevano, o se ne sarebbe occupato lo Stato. Viste le condizioni in cui versavano i latifondi, non era pensabile iniziare un programma agrario senza le opportune e necessarie bonifiche; e non era possibile realizzarlo senza gli agricoltori.
La sequenza delle leggi promulgate al riguardo sembra la stessa che qualunque governo con un minimo di buonsenso avrebbe adottato: regolamentazione della bonifica e richiesta ai proprietari di farsi parte diligente, conservando la proprietà dei terreni ma adoperandosi affinchè tale proprietà fosse funzionale ai bisogni della nazione. E “funzionali ai bisogni della nazione” sono solo terre bonificate e coltivate da agricoltori. Qualora il proprietario avesse tentato di sottrarsi a quella che era una necessità, lo Stato vi si sarebbe sostituito, sobbarcandosi l’onere delle trasformazioni (bonifica, infrastrutture ed abitazioni per i contadini), ma evidentemente subentrando nel possesso. E, alla fine, il possesso non sarebbe potuto comunque essere lasciato ai privati, almeno per quegli immobili che rivestivano una posizione particolarmente importante ai fini del piano di ruralizzazione. Tale posizione può essere considerata innovativa rispetto a come erano andate le cose durante i precedenti mille anni, ma non riesco a vedere né rivoluzione né propaganda in questo; solo necessità ed un minimo di buonsenso.
L’azione di governo in tal senso in Italia in generale ed in Sicilia in particolare si estrinsecò con diverse modalità che solitamente vengono considerate corrispondenti a successive fasi, descritte in sequenza temporale; ma in realtà alcune di esse coesistettero, sovrapponendosi.
E’ ovvio che, dovendo intraprendere delle iniziative volte a conseguire questo fine ed essendosi svolto tutto nel breve periodo di un ventennio, la pianificazione di esse non poteva essere precedente; ideazione ed attuazione si sono sempre svolte in rapida successione, verificando i risultati in divenire, ed adeguandovi il progetto. Si è quindi assistito ad un’evoluzione che si rispecchia nelle leggi e nell’azione di governo. Ed è proprio questa evoluzione che si estrinseca nelle fasi.
Grosso modo, nell’ evoluzione si potrebbe intravedere la determinazione iniziale della realizzazione, ma ancora priva di una pianificazione a lungo termine e diffusa all’intero territorio nazionale, la quale gradualmente sfocia in una più meticolosa e capillare riorganizzazione di tutto l’assetto rurale che ne coinvolge ogni aspetto, dall’assegnazione dei terreni fino alla realizzazione delle infrastrutture, passando per un urbanesimo progettato ad hoc. L’implicito riconoscimento dell’esistenza di una “questione siciliana” si evince dal passaggio, in Sicilia, dall’applicazione delle medesime leggi formulate per l’intero territorio nazionale, alla necessità della formulazione di normative che riguardarono specificamente la regione.
E mentre si svolgeva l’evoluzione nel processo del tentativo di popolare le campagne, un altro processo seguiva un’evoluzione parallela a quella della ruralizzazione, processo che avrebbe dovuto rappresentarne la controparte per quel che riguardava la struttura stessa della società. Era il processo che mirava a sfollare le città. Tale processo ebbe aspetti peculiari in Sicilia, in quanto l’obiettivo del Regime fu alla fine quello di evitare l’aggregazione dei contadini; e ciò è chiaramente visibile nell’evoluzione delle fasi e nella corrispondente struttura dei borghi. In una prima fase, l’obiettivo di sfollare le città fu quello che apparve prioritario. Poiché si riteneva che sarebbe stato difficile convincere i contadini ad abbandonare i centri abitati, si pensò di poterlo risolvere creando dei nuovi centri, tentativi di “città nuove”, quelle che Antonio Pennacchi definisce “fondazioni”. Ci si rese conto che se i centri avessero assolto alla loro funzione, agendo da nucleo di fondazione per lo sviluppo di una nuova città, questo avrebbe portato semplicemente allo spostamento dei contadini da una città, ad un’altra, nuova, città. Creare dei raggruppamenti più piccoli e più numerosi avrebbe potuto rimediare al problema; tali raggruppamenti sarebbero i “sottoluoghi” di Antonio Pennacchi, che però sono più numerosi di quanto comunemente venga riportato, e sembrerebbero avere un significato più articolato. Anche tale soluzione si rivelò poco efficace, soprattutto in assenza di una reale pianificazione, e di una realizzazione solo parziale dei progetti nei quali detta soluzione si sarebbe dovuta concretizzare. I metodi fin qui adottati erano viziati da una contraddizione di fondo: si cercava di spingere i contadini ad abbandonare le città offrendo loro un surrogato di città, surrogato che inoltre era suscettibile di evoluzione in vera città. Questo, alla lunga, anziché favorire la ruralizzazione avrebbe favorito l’urbanizzazione, creando nuovi centri, e non avrebbe risolto il problema dell’ostacolo all’aggregazione della classe contadina. La soluzione radicale venne con Mazzocchi Alemanni, Caracciolo e l’ECLS. In questa fase, la struttura dei borghi e la distribuzione delle case coloniche sul territorio è progettata applicando la regola ferrea dell’isolamento. E’ la fase delle “città nuove” di Antonio Pennacchi, che però “città”, nelle intenzioni dei progettisti, non sarebbero divenute mai.
Parallelamente a questa evoluzione, vi fu una fase che non subì mai alcun tipo di evoluzione, nella quale la ruralizzazione poteva essere favorita senza preoccuparsi delle aggregazioni degli elementi della classe contadina.
La
guerra pose fine all’evoluzione; con la caduta del Fascismo venne meno il
precetto dell’isolamento dei contadini. Mazzocchi Alemanni dirà nel 1955 che un
ripensamento in questo senso era già presente nell’ambito dell’ECLS; e durante
la prima fase della repubblica, l’assioma del contadino isolato nella casa
colonica sperduta in mezzo alla campagna perse la sua validità. E cominciò la
degenerazione, quella stessa degenerazione che subito dopo il boom economico
coinvolse ogni aspetto della vita del paese, esitando nella disastrosa
situazione di cui oggi paghiamo le conseguenze a caro prezzo.
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